domenica 16 maggio 2010

Così parlò Eugenio

Così parlò Eugenio

La nuova fatica di Scalfari, tra i lumi di Diderot e il “pensiero danzante” di Zarathustra
La Stampa, 14 maggio 2010

Non sarà che Einaudi ha deciso di pubblicare l’ultimo libro di Eugenio Scalfari (Per l’alto mare aperto. La modernità e il pensiero danzante, pp. 286, e19,50) in questo periodo che è già la vigilia degli esami di maturità, come un testo da raccomandare per una sorta di «ripasso» generale sulla storia della nostra cultura? Può sembrare una malignità, ma credo che, se si accentua piuttosto il termine maturità che l’idea scolastica di esame, l’autore non dovrebbe risentirsi di questa ipotesi. Soprattutto perché il libro ha un chiaro, anche se non esplicito, intento pedagogico. Scalfari stesso confessa di averlo scritto per un’intima necessità di testimoniare, che è appunto una sorta di volontà pedagogica più che una semplice esigenza di mettere ordine nelle proprie idee e nella propria storia. Dunque si tratta di una sorta di autobiografia della modernità attraverso le esperienze, soprattutto di lettura, di un interprete abbastanza eccezionale sia per il peso che ha nella nostra cultura e nella politica oggi; sia per la ricchezza, complessità e densità, diciamo pure esemplarità, dell’itinerario intellettuale che si rispecchia nelle pagine del libro. Un itinerario al quale anche un vecchio professionista della storia delle idee non può che guardare con ammirazione e persino invidia: quanti dei testi e degli autori che Scalfari rivisita con acume e originalità, non senza aver presente e utilizzare la cosiddetta letteratura secondaria su molti di essi, io ho letto poco e magari dimenticato, mentre lui li vive come interlocutori di un dialogo appassionato e, anche, appassionante? È questo il bello e anche il limite - a mio parere - del libro, la ragione del misto di ammirazione e (sia pur relativa) estraneità che la lettura suscita. Estraneità: c’è ancora una traccia di ingenuità «moderna» nella convinzione di poter costruire collegamenti e sintesi tra i tanti scrittori che spesso sono tenuti insieme solo dalla vicenda personale dell’autore che li rivisita. Anche se, e qui si può parlare di ammirazione, la ricostruzione non ha affatto la pretesa di offrire un quadro unitario del suo tema, e anzi se un senso ha il percorso di Scalfari è proprio quello di accompagnare la modernità alla sua fine prendendo atto della sua progressiva esplosione e irriducibilità a un senso unitario. Il personaggio che chiude il percorso non a caso è lo Zarathustra di Nietzsche - la cui eco risuona anche nel sottotitolo del libro che allude al «pensiero danzante» del profeta nietzschiano. Se poi si pensa che all’altro estremo del viaggio, all’inizio, c’è Denis Diderot, sarebbe anche facile riassumere il libro come una storia del fallimento dell’Illuminismo. Un sommario che Scalfari probabilmente non condividerebbe; o che almeno considererebbe solo la descrizione di un destino cinico e baro di cui il razionalismo illuministico non può considerarsi colpevole ma solo vittima. Del resto anche chi si professa molto meno illuminista di Scalfari deve riconoscere che se un fallimento dell’Illuminismo c’è stato, la cultura che via via lo ha dissolto e reso inattuale ha proprio lì le sue radici.

La «morte di Dio» di cui parla Nietzsche - ma se per questo anche la fine del capitalismo per mano degli assassini che esso stesso si è cresciuti, come dice Marx - avviene per una sorta di logica interna: Dio muore perché i suoi fedeli applicano fino in fondo il suo precetto di non mentire; e oggi che la credenza in Dio ha permesso di costruire una società più (relativamente) sicura della foresta primitiva, la divinità è ormai una menzogna non più necessaria. Anche Nietzsche, a cui Scalfari si richiama continuamente (dandone peraltro una lettura alquanto convenzionale, benché simpatetica) ha oscillato tra ammirazione per Voltaire e aperta professione di irrazionalismo. Ma, per tornare alla maturità, sia come valore sia come esame, la ricostruzione della modernità che il libro offre, sebbene riprenda in molti aspetti l’immagine canonica che tutti più o meno condividiamo, è spesso irta di punte originali capaci di mettere in difficoltà i maturandi che volessero ispirarvisi per il loro tema di esame. A parte qualche espressione linguisticamente inusuale che potrebbe fare imbizzarrire un commissario pignolo (abituato a dire la, e non il, Romantik, per il romanticismo), non pochi degli autori collocati in posizione centrale da Scalfari - pensiamo a Chateaubriand (letto attraverso Sainte-Beuve e Marc Fumaroli), a Rilke, meno a Tocqueville - sono abbastanza estranei alla nostra cultura corrente. E anche le interpretazioni di autori più familiari a questa cultura, da Cartesio a Kant a Hegel, sono più originali di quanto anche un dignitoso sommario di storia della filosofia sia solito offrire. Va tutto a merito dell’autore, ovviamente.

Il cui filo conduttore, anche se non serve a costruire un «sistema della modernità», è quello che si esprime nel titolo «storia di un’anima» che egli applica al Malte Laurids Brigge di Rilke (e che però è anche, curiosamente, il titolo della quasi contemporanea autobiografia di Santa Teresa di Lisieux ). La modernità è in fondo la storia dell’io e della sua insostenibile leggerezza, si potrebbe dire. O ancor più della sua irriducibile molteplicità: non un io diviso, come forse preferirebbe dire Nietzsche, ma un io cassa di risonanza delle mille voci che ne fanno il tormento e le ricchezza.

GIANNI VATTIMO

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