domenica 16 maggio 2010

Sul boicottaggio di Israele

Rassegna stampa sul tema.

Salone libro: polemiche per premio a Oz
Parte da Torino nuova campagna boicottaggio culturale a Israele (ANSA) - TORINO, 7 MAG - Ancora una volta il Salone del Libro è al centro delle polemiche mosse dagli intellettuali universitari, come il filosofo Vattimo. Nel 2008 le polemiche scoppiarono quando Israele fu il paese ospite. Ora è la nomina, tra i 3 finalisti del nuovo Premio Salone Internazionale del Libro, dello scrittore israeliano Amos Oz. Scrittore, secondo l'associazione pacifista ISM, vicino al potere e mirato ad avvallarne le politiche violente e razziste nei riguardi di tutto ciò che non è ebreo.

Salone del Libro: boicottare Israele
Vattimo ci riprova
Il Giornale, 8 maggio 2010
Ancora una volta il Salone del Libro, dopo le polemiche del 2008, quando Israele fu il paese ospite, è al centro degli attacchi di intellettuali, come il filosofo Gianni Vattimo, che si riconoscono nell’Ism (International Solidarity Movement Palestinese) e nella sua campagna di boicottaggio culturale di Israele. In particolare è nel mirino dell’Ism la nomina, tra i tre finalisti del nuovo Premio Salone Internazionale del Libro, dello scrittore israeliano Amos Oz. Scrittore, secondo gli organizzatori della protesta, «vicino al potere e mirato ad avvallarne le politiche violente e razziste nei confronti di tutto ciò che non è ebreo». «Certo non vogliamo la distruzione di Israele, ma della struttura del suo governo», dice Vattimo. Nessuno all’Ism sembra però ricordare che Amos Oz è stato tra i primi in Israele a schierarsi a favore della creazione di uno stato palestinese.

Israele divide gli ebrei d'Europa
L'intervento di Wiesel su Gerusalemme, la polemica tra gli intellettuali. Schieramenti: Gad Lerner sostiene il documento di Bernard-Henri Lévy. Paolo Mieli e Giuliano Ferrara con Fiamma Nirenstein
Posizioni contrastanti sulla politica di Netanyahu: appelli e raccolte di firme anche in Italia
Corriere della sera, 7 maggio 2010; di Antonio Carioti
Dal suo incontro alla Casa Bianca con il presidente Barack Obama, martedì scorso, il premio Nobel Elie Wiesel è uscito con la convinzione che le tensioni fra Stati Uniti e Israele siano in via di superamento. Ma certo sono tutt'altro che superati i contrasti sulla questione mediorientale tra intellettuali ebrei (ma non soltanto) innescati proprio da un appello di Wiesel uscito a metà aprile su alcuni tra i più prestigiosi quotidiani degli Usa. L'anziano premio Nobel era intervenuto su Gerusalemme e sul vincolo «al di sopra della politica» che lega la città al popolo ebraico, affermando che oggi, sotto la sovranità d' Israele, a tutta la popolazione urbana, di qualsiasi fede religiosa, è garantita non solo la libertà di culto, ma anche una condizione di pari opportunità in fatto di licenze edilizie. Parole cui hanno reagito alcuni intellettuali israeliani di sinistra, come l' ex presidente del Parlamento Avraham Burg e lo storico Zeev Sternhell, che vi hanno letto un appoggio alla politica dell'attuale premier Benjamin Netanyahu, leader della destra sionista. È nata così una lettera a Wiesel, sottoscritta da 99 studiosi, in cui si accusa il Nobel di sovrapporre un ideale astratto alla Gerusalemme reale, con «errori fattuali e false rappresentazioni», senza tener conto delle discriminazioni cui è sottoposta la popolazione araba della città.
Poco dopo veniva diffuso in Europa un altro documento molto critico verso il governo israeliano, su iniziativa del gruppo di intellettuali ebrei progressisti JCall (da European Jewish Call for Reason, «Appello alla ragione ebraico europeo»). I firmatari (tra cui Bernard-Henri Lévy, Alain Finkielkraut, Gad Lerner, il leader ecologista Daniel Cohn Bendit, il regista Elie Chouraqui) riaffermano «il legame con Israele» come «parte costitutiva» della loro identità, ma sostengono che l'occupazione e l'espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme è «un errore politico e morale». Quindi dichiarano che il principio «due popoli, due Stati» è l'unica possibile via d'uscita dal conflitto, chiedono all'Unione Europea e agli Usa di esercitare «una pressione forte sulle parti in lotta», esortano la diaspora ebraica a impegnarsi nella stessa direzione. «Allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano - si legge nel documento - è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato d'Israele», in quanto la sua sopravvivenza «come Stato ebraico e democratico» risulta «strettamente legata alla creazione di uno Stato palestinese sovrano e autosufficiente». L'appello di JCall, che ha raccolto ad oggi circa 5.000 firme, fa emergere con chiarezza il nucleo della contesa che divide il mondo ebraico circa il conflitto mediorientale. C'è chi, come i firmatari del documento, ritiene che Israele non faccia abbastanza per creare le condizioni di un accordo con i palestinesi e c'è chi invece indica nel rifiuto arabo e musulmano (corroborato dalle minacce atomiche dell' Iran) verso lo Stato ebraico il vero nodo da sciogliere, che rende impraticabile la soluzione «due popoli, due Stati».
Su questa linea si collocano infatti due appelli stilati in esplicita polemica con la linea di JCall. Il primo è stato diffuso in Francia da personalità come lo studioso del razzismo Pierre-André Taguieff e il direttore della rivista «Controverses», Shmuel Trigano. Il secondo, benché lanciato in Italia dalla giornalista Fiamma Nirenstein, deputata del Pdl, ha un carattere internazionale. Lo hanno sottoscritto, tra gli altri, Paolo Mieli, Giuliano Ferrara, Giorgio Israel, Riccardo Pacifici, ma anche il padre nobile dei neocon americani Norman Podhoretz, lo storico Michael Ledeen, l'editorialista del «Jerusalem Post» Caroline Glick. Il documento francese afferma che JCall «va contro i suoi obiettivi dichiarati», perché «contribuisce ai tentativi di boicottaggio e di delegittimazione che minano lo Stato d' Israele», ignorando completamente che ogni segnale di buona volontà proveniente dallo Stato ebraico (come il ritiro dal Sud del Libano e quello dalla striscia di Gaza) non ha fatto altro che imbaldanzire la parte più fanatica ed estremista della controparte araba. Ancor più duro l'appello di Fiamma Nirenstein, che attacca anche gli intellettuali scesi in campo contro Wiesel, critica la linea di Obama e difende Netanyahu. «Voler spingere Israele a concessioni territoriali senza contraccambio - dichiarano i firmatari - significa semplicemente consegnarsi nelle mani del nemico senza nessuna garanzia». Le tesi di JCall vengono qui presentate come parte di «una triste epidemia perbenista, con la quale probabilmente si pensa di fornire un po' di ossigeno ai movimenti pacifisti», mentre non si fa altro che favorire i nemici d'Israele, consentendo loro di dire: «Anche molti ebrei sono dalla nostra parte».
Accuse alle quali Lèvy, su «Le Monde» di ieri, risponde ricordando il suo lungo impegno a favore di Israele. Il filosofo francese denuncia la furia «islamofascista» di Hamas e avanza qualche riserva sul testo dell' appello di JCall, ma ribadisce che si tratta di «una buona iniziativa», poiché a suo avviso amare lo Stato ebraico significa anche distinguerlo dalla politica del suo governo, al quale addebita errori molto gravi. Su una linea analoga, in Italia, l'assessore alla cultura dell' Unione delle comunità ebraiche Victor Magiar, secondo cui l'appello contro JCall contiene «una distorsione delle tesi altrui». Certo è che, se i sostenitori di Israele appaiono divisi, i suoi avversari non demordono anche dalle iniziative più oltranziste. Basti pensare che oggi a Torino Gianni Vattimo e altri docenti universitari lanciano un «appello per il boicottaggio accademico e culturale» dello Stato ebraico, che tacciano di «politica genocidaria» assimilandolo al Sudafrica razzista dell'apartheid.
Boicottiamo i latinisti israeliani?
L'espresso, 14 maggio 2010. Di Umberto Eco
Non sono d'accordo con il mio amico Gianni Vattimo che ha firmato l'appello secondo cui "gli accademici e intellettuali israeliani hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi"
Nel gennaio 2003 in una Bustina mi rammaricavo che la rivista inglese "The Translator", diretta da Mona Baker, stimata curatrice di una Encyclopedia of Translation Studies avesse deciso (per protestare contro la politica di Sharon) di boicottare le istituzioni universitarie israeliane, e pertanto aveva chiesto a due studiosi israeliani, che facevano parte del comitato direttivo della rivista, di dare le dimissioni. Per inciso i due studiosi erano notoriamente in polemica con la politica del loro governo, ma la cosa a Mona Frank non faceva né caldo né freddo.Osservavo che occorre distinguere tra la politica di un governo (o addirittura tra la costituzione di uno Stato) e i fermenti culturali che agitano un certo paese. Implicitamente rilevavo che considerare tutti i cittadini di un paese responsabili della politica del loro governo era una forma di razzismo. Tra chi si comporta così e chi afferma che, siccome alcuni palestinesi commettono attentati terroristici, bisogna bombardare tutti i palestinesi, non c'è alcuna differenza. Ora è stato presentato a Torino un manifesto della Italian Campaign for the Academic & Cultural Boycott of Israel in cui, sempre per censurare la politica del governo israeliano, si sostiene che "le università, gli accademici e gli intellettuali israeliani, nella quasi totalità, hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi e sono complici delle loro politiche. Le università israeliane sono anche i luoghi dove si realizzano alcuni dei più importanti progetti di ricerca, a fini militari, su nuove armi basate sulle nanotecnologie e su sistemi tecnologici e psicologici di controllo e oppressione della popolazione civile". Pertanto si chiede di astenersi dalla partecipazione in ogni forma di cooperazione accademica e culturale, di collaborazione o di progetti congiunti con le istituzioni israeliane; di sostenere un boicottaggio globale delle istituzioni israeliane a livello nazionale e internazionale, inclusa la sospensione di tutte le forme di finanziamento e di sussidi a queste istituzioni.
Non condivido affatto la politica del governo israeliano e ho visto con molto interesse il manifesto di moltissimi ebrei europei (JCall) contro l'espansione degli insediamenti israeliani (manifesto che, con le polemiche che ha suscitato, mostra come ci sia una accesa dialettica su questi problemi nel mondo ebraico, dentro e fuori Israele). Ma trovo mendace l'affermazione per cui "gli accademici e gli intellettuali israeliani, nella quasi totalità, hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi", perché tutti sappiamo di quanti intellettuali israeliani abbiano polemizzato e polemizzino su questi temi.Dobbiamo astenerci di ospitare in un congresso di filosofia ogni filosofo cinese per il fatto che il governo di Pechino censura Google? Posso capire che (per uscire dall'imbarazzante argomento israeliano) se si apprende che i dipartimenti di fisica dell'università di Teheran o di Pyongyang collaborano attivamente alla costruzione della bomba atomica di quei paesi, i dipartimenti di fisica di Roma o di Oxford preferiscano interrompere ogni rapporto istituzionale con quei luoghi di ricerca. Ma non capisco perché debbano interrompersi i rapporti coi dipartimenti di storia dell'arte coreana o di letteratura persiana antica. Vedo che ha partecipato al lancio del nuovo appello al boicottaggio il mio amico Gianni Vattimo. Ora facciamo (per assurdo!) l'ipotesi che in alcuni paesi stranieri si diffonda la voce che il governo Berlusconi attenta al sacro principio democratico della divisione dei poteri delegittimando la magistratura, e si avvale del sostegno di un partito decisamente razzista e xenofobo. Piacerebbe a Vattimo che, in polemica con questo governo, le università americane non lo invitassero più come visiting professor, e speciali comitati per la difesa del diritto provvedessero a eliminare tutte le sue pubblicazioni dalle biblioteche Usa? Io credo che griderebbe all'ingiustizia e affermerebbe che fare così è come giudicare tutti gli ebrei responsabili di deicidio solo perché il Sinedrio quel venerdì santo era di malumore. Non è vero che tutti i rumeni sono stupratori, tutti i preti pedofili e tutti gli studiosi di Heidegger nazisti. E quindi qualsiasi posizione politica, qualsiasi polemica nei confronti di un governo, non deve coinvolgere un intero popolo e una intera cultura. E questo vale in particolare per la repubblica del sapere, dove la solidarietà tra studiosi, artisti e scrittori di tutto il mondo è sempre stato un modo per difendere, al di là di ogni frontiera, i diritti umani.

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