giovedì 26 agosto 2010

La nostra passione vincerà sui loro interessi

Il mio post sul sito dell'Italia dei Valori.

Crisi di governo: che fare? Semplice, approfittarne. Il compito storico che attende l'opposizione è riempire lo spazio politico creato dal “governo del non fare nulla” e denunciato dalla scissione finiana; un'opportunità, oltre che un dovere, che le tante voci sicure dell'impossibilità di battere il Pdl in eventuali elezioni ravvicinate trascurano di considerare. Certo, a ciò contribuiscono le indecisioni del Pd, che tuttavia aprono, proprio come la crisi di governo e in particolare le ragioni che la sostengono, una prospettiva allettante per l'Italia dei Valori: in un'epoca di interessi senza passioni, per recuperare il lessico di Albert Hirschman, è la passione non interessata che può imprimere una svolta politica. La passione per la legalità che contraddistingue i tanti elettori dell'Idv è di natura intrinsecamente sociale anziché individualistica, nonché rivoluzionaria, non appena si riconosca, in questo slancio, la più concreta volontà di portare a compimento la costituzione: un documento di portata appunto rivoluzionaria, come riconosceva in tempi non sospetti (una costituzione rivoluzionaria di per sé, e non esclusivamente in rapporto allo scempio attuato dall'attuale governo) Piero Calamandrei.
Se la scelta di Fini cade su un'opzione exit, per dirla ancora con Hirschman – una via d'uscita dal degrado politico governativo –, la risposta dell'opposizione dev'essere di tipo voice – la via del cambiamento per tramite della politica – che necessariamente presuppone, quale suo requisito essenziale, quella legalità che, sola, può condurre i cittadini a essere i principali attori del cambiamento stesso. Il passo successivo, quello della loyalty nello schema hirschmaniano, è quello dell'alleanza, e della costruzione di un'alternativa forte al governo degli interessi berlusconiano. L'Idv ha molto da offrire, a tal riguardo: un'avanguardia, per così dire, che puntando sulla legalità ha creato un importante precedente per pensare a una società di passioni oltre che di interessi. Da qui, e solo da qui, si può partire per affrontare le tante ingiustizie che nell'illegalità trovano un alleato imbattibile; e da qui si dovrà partire per costruire un programma che recuperi la migliore qualità politica della sinistra e del cristianesimo sociale: la capacità d'immaginare una società diversa da quella esistente. L'Italia dei Valori è pronta.

martedì 24 agosto 2010

Sul sentiero dei filosofi, due virgole cambiano tutto

Un altro consiglio di viaggio, dal mio articolo su La Stampa di ieri.

“Il Philosophenweg è un sentiero lungo circa due chilometri, che sale dal quartiere Neuenheim di Heidelberg verso l’altura dello Heiliger Berg”. Sono le prime righe del breve articolo che chiunque può trovare in Wikipedia, e al quale ho dovuto ricorrere per rinfrescare la mia memoria circa un luogo che per anni mi è rimasto in mente accentuando sempre più i suoi caratteri mitici e perdendo parallelamente ogni concretezza. Al punto che oggi, per arrivare ad imboccarlo, dovrei chiedere indicazioni.

Quando arrivo a Heidelberg (è già la seconda volta, ci sono stato due anni prima per un breve corso estivo) è il mese di ottobre del 1963. Sono titolare di una borsa della Fondazione Alexander von Humboldt - una delle più prestigiose e certo tra le più ricche – e mi preparo a passare almeno un anno, ma saranno poi due, seguendo i corsi di Hans Georg Gadamer, di Karl Loewith, e di Juergen Habermas da poco nominato in quella università. Poiché me lo posso permettere, cerco casa in uno dei quartieri più belli della città vecchia, subito al di là dell’Alte Bruecke, il ponte vecchio che scavalca il Neckar e conduce anche verso il Philosophenweg. Già da vari mesi ho cominciato a studiare Heidegger (mia madre resterà sempre incerta se studio Heidegger a Heidelberg oppure Heidelberg a Heidegger..) e il poeta che lui predilige, Friedrich Hoelderlin. Direi che i quel momento sono affetto da una ammirazione quasi patologica per la cultura tedesca: quando apro Hoelderlin provo una sorta di emozione fisica, il cuore in gola di chi si accosta a un sancta sanctorum. E sul Philosophenweg, che una delle prime sere comincio a salire, c’è anche un punto con una Hoelderlinstein, una pietra che segna il luogo da cui Hoelderlin ammirò il panorama della città vecchia ispirandovi una sua famosa poesia . Non ricordo di averla vista davvero; mi torna in mente la delusione provata quando, sul lago di Silvaplana, raggiunsi la “Pietra dell’eterno ritorno”, il luogo dove Nietzsche ebbe la rivelazione della idea che dominò da allora in poi tutto il suo pensiero: un sasso quasi invisibile, che sfuggirebbe al viandante se non ci fosse una scritta....Ma i filosofi a cui è intitolato il sentiero? Non sono i grandi classici tedeschi (ci sarà passato almeno Hegel, certo, che insegnò qui; e più di recente Max Weber, la cui casa si affacciava sul Neckar sotto la collina su cui si arrampica la strada). Il nome allude agli studenti che usavano passeggiarvi, spesso non solo in compagnia dei libri; e che, secondo un uso ottocentesco, erano tutti, almeno all’inizio, studenti di filosofia (Così come oggi chi compia il terzo ciclo di studi in una università americana, fosse pure un geografo o un chimico, è un PhD, Philosophiae Doctor). Anche di studenti, però, in quel mese di ottobre ne incontro pochi: i corsi cominciano a novembre, la città non è ancora così animata come sarà nel corso del semestre. Oltre a leggere Hoelderlin e Heidegger, vado solo a trovare Gadamer; che abita in collina, tanto che sulle prime mi immagino che viva appunto sul Philosophenweg, il che per la mia mitologia personale sarebbe il massimo. Ma no, sta da un’altra parte della collina; dove, invitato a cena, arrivo (con il mio mazzo di rose per la signora, Frau Professor) con un giorno netto di ritardo. Conosco le parole Samstag e Sonntag, sabato e domenica. Ma non ancora Sonnabend, che è altro termine per sabato. Risultato, credo di dover andare la domenica (Sonntag) sera (Abend). Gadamer mi ricorderà l’episodio anni dopo, quella sera lo stufato di cervo mi aspettava comunque. Del resto,mentre seguo benissimo le sue lezioni pubbliche, non sempre sono sicuro di capire quello che Gadamer mi dice nei colloqui privati; credo anche per la sua abitudine di intercalare espressioni del tedesco parlato: sowieso, kaum (appena appena, a stento, non proprio ma..)..Ancora oggi non mi fido di questo kaum, e anche Sonnabend continuo a sfuggirlo. Ma intanto, aveva allora 63 anni, Gadamer comincia a imparare l’italiano, e preferisce che io gli parli nella mia lingua. La kaum-frage, la questione del kaum, però, si riproduce in termini diversi: non sempre capisco il suo italiano Anche per questo le nostre conversazioni sono spesso lunghissime: discutiamo della mia traduzione del suo libro Wahrheit und Methode, che concluderò solo alla fine degli anni Sessanta, e che, edita da Fabbri e poi da Bompiani, rimarrà per vari anni l’unica traduzione esistente.

Tutto questo e molto altro evoca in me il Philosophenweg. A dimostrazione che tutto, o quasi, sta nei nomi: “l’essere che può venir compreso è linguaggio”, è una delle tesi centrali di Verità e metodo , su cui, anche guardando dall’alto della collina il Philosophenweg, ho avuto il privilegio di discutere con Gadamer : mettere o no tra due virgole la proposizione relativa, come in tedesco non si può non fare? Se ne è discusso ancora il giorno del centesimo compleanno del maestro, nella vecchia aula magna di Hedelberg, In italiano le virgole cambiano tutto: “L’essere, che può venir compreso, è linguaggio” – significa “tutto l’essere”. Senza le virgole, invece, solo quell’essere che può venir compreso è linguaggio; ma finisce per sembrare una tautologia. Temo che Gadamer, da buon pensatore moderato che non voleva urtarsi troppo con i “realisti”, tendesse a preferire l’italiano senza virgole, Ma io pensavo e penso che il suo, nostro, ispiratore Heidegger sarebbe stato per la versione più radicale, con le virgole.

Ma torniamo al Philosophenweg. Che di per sé non è molto diverso da tanti sentieri della collina torinese. Dunque (una prova che ci vogliono le virgole?) tutto sta nel nome. E non so nemmeno se, nominandolo in italiano, avrebbe per me la stessa suggestione. Sempre ancora con il mio cuore in gola appena avvicino la lingua di Hoelderlin e di Heidegger.

domenica 22 agosto 2010

Idee primarie

Primarie per i candidati, ma il programma? Certo, il governo tecnico invocato da buona parte dell’opposizione avrebbe l’indubbio vantaggio di attirare l’attenzione mediatica sull’inedita coalizione, magari nella speranza che questa si dimostri in grado non solo di rimuovere la maialesca legge elettorale, ma di governare una vera e propria transizione verso la nuova legislatura, e B. verrebbe provvidenzialmente posto in secondo piano per qualche mese. Ma le elezioni, prima o poi, arriveranno. E la mancanza di un programma, oltre che di un leader e persino di slogan alternativi alla destra (perché il Pd non si sia dedicato alla costruzione dell’alternativa a partire dal lancio del nuovo governo di B., nel 2008, resta un mistero) si farà inevitabilmente sentire.
I lettori del Fatto Quotidiano si sono giustamente schierati a favore delle primarie: un passo significativo, tanto più in previsione di un aumento deciso dell’astensionismo, l’unico alleato davvero fedele sul quale B. può contare. Chiunque vinca le primarie della coalizione, però, non potrà vincere contando unicamente sull’appeal della sua persona: essere alternativi a B. significa anche vincere diversamente da come farebbe lui. Difficilmente potremo andare al governo sventolando unicamente la bandiera della legalità sulla quale per fortuna oggi insiste anche Fini: abbiamo bisogno di motivi forti per i quali elettori delusi, stanchi e rassegnati dovrebbero votare per il nostro schieramento. Occorrono idee prioritarie per il programma di governo che intendiamo presentare, e primarie per quelle stesse idee.
Quale, anzitutto, la posizione di un’opposizione che si candidi a governare rispetto alle poche riforme approvate dal governo di B.? Gli elettori vorrebbero certo sapere, credo, se intendiamo ad esempio cancellare la sciagurata riforma dell’università; se il nostro modo di gestire l’economia si ispirerà davvero a efficienza ed equità sociale insieme, coniugando una seria lotta a sprechi e rendite con la volontà di salvaguardare il tessuto sociale prima del valore azionario delle nostre imprese; se intendiamo tornare a un regime meno repressivo in materia di diritti civili, di dipendenze, d’immigrazione, o se al contrario difenderemo a oltranza, magari a semplice tutela dei difficili equilibri che reggeranno la coalizione, le riforme promosse dal “governo del fare”.
Chi se non i più attenti e partecipi tra gli elettori stessi possono aiutare l’opposizione (evidentemente incapace, e ciò non è normale, di una simile avanguardia) a individuare i temi suoi quali organizzare il consenso per il cambiamento? Certo, organizzare primarie di idee è tutt’altro che semplice. Si potrebbe però prendere a prestito il metodo delle primarie, e arrivare a stabilire le priorità dell’alternativa di governo a partire dai nomi della società civile che i lettori del Fatto inserirebbero nell’ideale squadra da porre alla guida del paese. Due esempi: Luciano Gallino, per le sue proposte concrete in tema di flessibilità del lavoro (riduzione delle miriadi di contratti resi possibili dalla legge 40 alle poche davvero indispensabili categorie contrattuali); e Giorgio Ruffolo, per continuare con l’economia: il Ruffolo padre della programmazione economica (concetto del tutto estraneo al governo di B.) e il Ruffolo critico della finanziarizzazione estrema che accompagna il globalizzarsi dell’economia. E così via. Primarie sì, senza se ma con un ma: il leader, da solo, non ci farà vincere. Servono idee e priorità chiare, sulla base delle quali costruire l’alleanza. E occorre che a esprimerle siano innanzitutto gli elettori: il forum del Fatto può essere uno strumento di importanza decisiva.

domenica 15 agosto 2010

Botta e risposta su verità, relativismo, berlusconismo

Una risposta all'articolo di Giorgio Fontana, uscito il 12 agosto sul Manifesto.

Ecco l'articolo di Fontana:

La verità ai tempi di Berlusconi

«Gli italiani furono spesso accusati, a torto o a ragione, di non rispettare sufficientemente la verità. Va detto che poche persone in qualsiasi paese hanno per la verità un rispetto religioso; gli italiani non sono diversi dagli altri uomini. (...) Tuttavia, collettivamente, sembrano dimenticare, talora, l'importanza unica della verità. Spesso la ignorano, l'abbelliscono, vi ricamano intorno, la negano, a seconda dei casi».
Così Luigi Barzini, nel suo classico Gli italiani. Sono passati cinquant'anni, ma la frase sembra descrivere alla perfezione il presente. Allora lo spregio della verità è in realtà un tratto tipico della nostra storia? Chissà: in ogni caso, non mi pare abbia mai raggiunto forme gravi quanto quelle degli ultimi anni. Non è mai stato così istituzionalizzato e diffuso, reso sistema invece che norma di sopravvivenza quotidiana.
Ricordate il caso Di Bella? I media dicevano che la sua cura contro il cancro era miracolosa, quando in realtà tutti gli oncologi avevano espresso il massimo scetticismo. Ma Di Bella era televisivo, era perfetto, era un padre Pio laico della medicina. L'importante non erano i fatti quanto la comunicabilità di un evento. Era il 1997, e fu un simbolo evidente della tendenza progressiva a equiparare del parere degli esperti a quello di chiunque altro - purché interessante. Un po' come chiedere a Cannavaro cosa ne pensa di Saviano, e prendere la sua opinione per autorevole, perché uscita da una bocca celebre.
In questi casi, la verità non è il fine dell'indagine. Il fine dell'indagine è raccontare una storia.
Cifra di questo atteggiamento è il trionfo della figura dell'opinionista: affondiamo in una quantità di pareri e idee senza una bussola in grado di orientarci correttamente verso i fatti. E mentre l'opinionismo è spacciato come è simbolo della libertà di parola e della democratica espressione dei propri giudizi, in realtà eleva il parere a verità - un arlecchino di giudizi che si scontrano, e fra le quali emerge solo quello più potente.
Poco tempo fa, la filosofa Franca d'Agostini ha pubblicato un saggio dal titolo eloquente: Verità avvelenata (Bollati Boringhieri 2010). L'idea è indagare le forme di argomentazione presenti nel discorso pubblico e mostrare, con esempi tratti per lo più da affermazioni di politici, quanto le fallacie logiche siano presenti ovunque nelle società democratiche, e in Italia oggi: «Qualsiasi verità risulta fin da principio contaminata da uno sfondo di preliminare sospetto». Delegittimare, insultare, avvelenare l'intero pozzo del dibattito.
Perché tutto questo? Ci sono delle ragioni generali (come il fatto, indicato dall'autrice, che le regole stesse del discorso razionale sono incerte), ma nel caso dell'Italia contemporanea ci sono anche ragioni più circostanziate. Contingenze storiche che hanno portato a quello che ritengo il segno più vasto della crisi democratica del Paese: lo spregio per la verità e la razionalità, il disinteresse per la buona argomentazione.
Come sempre, Berlusconi è insieme causa, sintomo e simbolo di questo problema. Nell'ormai classico articolo di Gomez e Travaglio uscito su l'Espresso il 13 maggio 2004, i due autori raccontano quarantaquattro bugie dette dal premier, «escludendo i 115 minuti di deposizione spontanea al processo Sme-Ariosto (durante il quale Berlusconi riuscì a pronunciare ben 85 bugie allo straordinario ritmo di una balla ogni 81 secondi)».
La cosa interessante che questo modo di ragionare - lo spregio totale per l'idea di verità - sembra aver attecchito un po' ovunque. Berlusconi, quando è cosciente di dire il falso, lo dice tranquillamente perché sa che ormai la verità non può sconfiggere più le sue affermazioni: non è, per così dire, attiva nel mondo. Quindi verità e falsità sono concetti che non interessano più - basta dire ciò che serve al momento, magari smentirlo domani, non ha importanza.
D'Agostini parla di «costruzione di una realtà2» basata sulla comunicazione e non sull'informazione, e il processo di tale costruzione è stato lungo e diabolicamente meticoloso, nel corso degli ultimi vent'anni. Ma la costante emissione di parainformazioni e il continuo vivere in una «realtà2» ha prodotto una risposta coerente da parte di chi ascolta, e la colpa non è limitabile a chi parla. In altri termini: si sta smarrendo l'idea di un pubblico etico, di un pubblico capace di recepire la verità. Credo sia questa la grande differenza marcata dal berlusconismo: l'erosione della verità ora è dolorosamente sociale e diffusa ovunque.
Come scrive Davide Tarizzo in un saggio dell'antologia Forme contemporanee del totalitarismo (Bollati Boringhieri 2007): «La sfera del senso viene completamente integrata e assorbita nella sfera dell'assenso. L'ambiguità è il suo sentimento più veritiero». In una politica dell'applauso, dove la claque sottolinea un fatto accettandolo e mettendolo in ostensorio, il dissenso o la critica perdono di valore. Ma è proprio dalla volontà di dubitare e mettere in discussione - dall'umiltà e l'incertezza - che nasce la ricerca seria.
Ora, questo spregio per la verità come bene non è cosa nuova, e ha un vago sentore democristiano. Nello splendido monologo de Il divo, Sorrentino mette in bocca ad Andreotti un'argomentazione di stampo cattolico: la massima responsabilità è salvare il bene facendo il male, ignorando la questione della verità. Una simile metafisica è la stessa, in fondo, del Grande Inquisitore di Dostoevskij: sacrificando la libertà per la legge, si assicura una pretesa salvezza.
Se questa interpretazione è corretta, potremmo dire che tale politica del falso era in "buona fede" - per quanto carica di molte responsabilità civili e umane. Al contrario, la torsione finale del berlusconismo è lo spregio della verità in quanto tale, per ragioni assolutamente private. Dire il vero non è un elemento pericoloso in una visione delle cose, ma soltanto un dato pratico che va eliminato, perché rischia di compromettere il regno della menzogna - del «fa' come ti pare».
C'è dunque una palese tensione etica del falso, o meglio ancora dell'indifferenza verso la separazione tra vero e falso. Il potere sommerge la verità, la rende inutile: a emergere è la soluzione più forte, più interessante o più supportata - non la più plausibile.
E sempre per questo motivo, la colpa è «dei magistrati» e «dei giornalisti». Perché «fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità» (sentenza n. 255/1992, presidente A. Corasaniti, redattore M. Ferri). E perché «è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e della buona fede» (legge n. 69, 3/02/1963, art. 2). Di qui la necessità della legge bavaglio e della sua estensione ai blogger.
Tout se tient: il tema della verità è il filo rosso per comprendere l'inabissarsi della nostra etica pubblica.
Come reagire?
Alcuni pensano sia necessario un esame critico dell'idea di verità. Ad esempio Gianni Vattimo, che nel suo Addio alla verità (Meltemi 2009) propone di abbandonare questo concetto. Il ragionamento suona più o meno così: visto che c'è stato e c'è un uso ampiamente strumentale del vero come corrispondenza ai fatti, e uno svilimento totale del suo valore, la cosa migliore è lasciarlo perdere. Non ci sono verità disinteressate, l'oggettività è sempre schiava di determinati interessi.
Qui Vattimo compie due errori tipici del relativismo: pensare che tutta la verità si riduca a Verità assolute (quelle religiose o di etica generale), e ritenere che in ogni caso ogni affermazione di verità corrisponda all'imposizione di una pretesa di dominio.
Ma questa è una reazione figlia della crisi, e non risolve nulla. Porta anzi ad assurdità palesi, come quando Vattimo parla della ricerca scientifica: «Magari (questi scienziati) cercano solo di vincere il premio Nobel, e anche questo è un interesse» (p. 25). Una conclusione che lascia quantomeno a bocca aperta.
Inoltre, c'è una miriade di verità con la «v» minuscola che sono perfettamente neutrali e sulle quasi ci basiamo ogni giorno: perché trascurarle? Pensare che chiunque dica il vero si arroghi una pretesa di dominio sull'altro - come se non esistesse alcuna verità condivisibile, come se lo stesso concetto uccida qualunque forma di dialogo o scetticismo - è un rimedio peggiore del male.
E allora, non sembra esserci altra prospettiva che quella di tornare alla buona vecchia etica della verità. La comprensione critica e morale del mondo non può che passare da questo concetto: minimale quanto si vuole, ma indispensabile. Che si tratti di comprare un chilo di pesche, o di dibattere attorno ai temi della bioetica.
Si può obiettare che non è affatto un compito facile. Certo: è estremamente delicato e comporta molti problemi: la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di argomentare con chiarezza, di fidarsi di determinati esperti, e soprattutto l'eterno rischio di sbagliare o cadere nella presunzione.
Ma questa è la condizione umana. Possiamo divorare il loto dell'egoismo e fregarcene che l'opinione pubblica venga inquinata dalla falsità. Oppure, possiamo accettare che bene e verità siano cose fragili e complesse, ma proprio per questo così bisognose d'attenzione.
La scelta è solo nostra. Compiamola con responsabilità.


Ed ecco la mia risposta:


Cari amici, permettetemi qualche osservazione sull’articolo di Giorgio Fontana uscito il 12 agosto. Sebbene sia citato solo per inciso, si tratta qui del (mio) relativismo. Del quale si dice, come da parte di molti altri critici, che porta ad “assurdità palesi” (ma l’esempio degli scienziati niente affatto disinteressati non mi sembra così palesemente assurdo, anche se l’interesse che li muove può essere un po’meno individuale: sconfiggere il cancro, scoprire una energia rinnovabile e pulita: sempre interesse è, non “amore della verità”). Nel penultimo capoverso dello scritto, poi, Fontana elenca una serie di condizioni per poter tornare alla buona vecchia etica della verità: tra di esse “la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di fidarsi di determinati esperti”, ecc. Già, ma questo è proprio ciò che un buon ermeneutico sa di dover fare, dato che niente gli si dà “oggettivamente” e senza mediazioni di schemi e paradigmi. Grazie dell’ospitalità.

Sessualità e libertà. Viaggio tra libertini e prostitute, passando per Lutero e Marcuse

Il mio articolo ferragostano, uscito sull'Espresso di questa settimana.

Ma i filosofi libertini del Sei e Settecento, o anche i classici dell’illuminismo che ne continuarono l’insegnamento, erano anche dediti al libertinaggio (termine con cui, ancora poco tempo fa, qualche articolo di legge bollava l’attività di prostitute e clienti)? O ancora: davvero, come ci è stato raccontato da piccoli al catechismo, Lutero si ribellò al papa di Roma per cedere alle lusinghe di una donna, che come monaco non avrebbe dovuto avvicinare? E gli studenti ribelli del maggio '68 erano davvero inclini a occupare le sedi universitarie passandovi la notte solo perché questo favoriva una sfrenata promiscuità sessuale?

C’è un potenziale rivoluzionario, o almeno umanamente emancipatorio, nella rivendicazione teorica e pratica della propria libertà sessuale? Un’idea che si era ventilata ai tempi del khomeinismo più chiuso e moralista era di promuovere incursioni aeree sull'Iran in cui invece di bombe si lanciassero videocassette porno e preservativi. Nessuna potenza raccolse la proposta, e ancora oggi forse non ha perduto del tutto la sua attualità. Ma non era una proposta “seria”, ovviamente. Più serio, però, più degno di discorsi non puramente provocatori e grotteschi è il bilancio economico delle aziende che producono e vendono oggi (non in Iran, naturalmente) materiale pornografico, e che sembrano conoscere una nuova fortuna attraverso l’alleanza con la comunicazione elettronica e quella vera e propria forma di nuova biblioteca che è l’iPod. Altro che libertinismo sei- settecentesco – che anche allora, del resto, oltre che con i libri dei filosofi, si diffondeva con la letteratura pornografica. La diffusione del libro nei primi secoli dell’età moderna è forse stata, almeno in parte, un fenomeno come il successo della Fiat 600 nell’Italia degli anni Sessanta – per molti, l’unico posto in cui trovare un po’ di privacy per avventure sessuali altrimenti impossibili; o come quello del personal computer e, più di recente, dell’Ipod oggi. Luoghi dove esercitare una libertà che ci è altrimenti negata. Fantasticare immaginando situazioni che corrispondano ai nostri desideri è sempre stato considerato un esercizio vano – Don Chisciotte e i suoi mulini a vento; e nel caso che i desideri siano a contenuto sessuale, anatema sit: i “pensieri cattivi” sono male in sé e soprattutto male perché ci dispongono a peccare “davvero”. Ma davvero? Quando sono il modo in cui signore (e signori) trovano la via per soddisfare desideri che non pensano affatto di poter realizzare, che male c’è? La nascita del sesso virtuale con l’uso di strumenti elettronici pone problemi inediti anche alla morale cattolica: anche il Vangelo, probabilmente, condannava lo sguardo di concupiscenza perché spingeva a commettere poi davvero l’adulterio sognato. Certo, un confessore rigoroso obietterà che nel sesso virtuale c’è anche una componente onanistica, che la morale condanna: Onan e lo spreco del seme, eccetera. Ma in tempi di sovrappopolazione è un tema che nemmeno Buttiglione si sogna più di evocare.

Tuttavia, a parte la considerazione socio-economica del fenomeno, c’è davvero qualcuno che oggi rivendica il significo emancipatorio della pornografia anche e soprattutto nella forma della realtà virtuale? Soddisfarsi sessualmente davanti allo schermo del computer è un’attività che – a quanto pare – molti praticano e nessuno ammette o difende. Se non altro perché siamo ancora tutti dominati dall’idea che “farlo davvero” con un partner è “meglio”: più “umano” (argomento dei confessori contro la masturbazione), più “virile” (“io ne stronco quattro” secondo un noto presidente del consiglio), insomma più autentico. Bah, fino a che punto tutto questo non indica una soggezione alla metafisica della presenza che un heideggeriano o un derridiano troverebbe drammaticamente datata? Non solo la pornografia potrebbe rivelarsi un’altra via per rompere le catene della repressione (Marcuse non sarebbe forse d’accordo, anche lui ancora prigioniero di un pregiudizio “presenzialistico”...), ma anche per farci uscire dal predominio del “principio di realtà” che gratta gratta è sempre una faccenda di classe, di ricchezza, di potere.

Per tante ragioni, comunque, alcune buone e altre solo moralistiche, è difficile che le signore americane con i loro porno-video-romanzi possano considerarsi avanguardie rivoluzionarie… Però, visto che intanto il grosso delle forze della rivoluzione tarda ormai irrimediabilmente, anche una piccola avanguardia come questa può rivendicare una sua dignità.

martedì 10 agosto 2010

Casa Gramsci


Altro post per Il Fatto Quotidiano... e un suggerimento vacanziero.

Casa Gramsci

Lo sanno in pochi, purtroppo, vacanzieri occasionali e residenti: eppure chi si trovasse non troppo distante da Ghilarza, nel cuore della Sardegna, potrebbe spendere una mezza giornata a casa di Antonio Gramsci, e ritrovarsi felicemente turbato; turbato, ma felicemente. Perché la casa dell’adolescenza di Gramsci è oggi un piccolo e accogliente museo che del nostro ricorda non solo la vita in famiglia, la salute compromessa, e indirettamente gli anni della lontananza e della prigionia, ma anche il pensiero, l’attività politica, e un’eredità che, come accade per buona parte dei “grandi”, fatica a ritagliarsi uno spazio nella superficialità della società, anche politica, contemporanea. A colpire il visitatore è innanzitutto una riproduzione anastatica (che occupa un’intera parete) della lettera che Gramsci scrisse nel 1928 a sua madre, quasi a volersi scusare delle scelte compiute, quelle che lo condannavano a essere, di fatto per sempre, un prigioniero politico:

“Vorrei per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso”.

La detenzione e la condanna le ho volute io stesso: il Gramsci divulgatore dell’ideale comunista, il Gramsci intellettuale al servizio di una società nuova, di un’Italia migliore, di un futuro di emancipazione piena, il Gramsci che si rifiuta di stringere la mano a Mussolini dopo l’unico intervento (sulla questione meridionale) fatto in Parlamento, è un eroe tragico, e dunque felice. Un eroe che trae felicità e tranquillità dall’essere (inevitabilmente) imprigionato, perché la prigione non è che la conseguenza dell’essere rimasto fedele al suo credo politico. E quando si sfoglia l’album di famiglia, quello che all’ingresso del museo raccoglie le fotografie dei leader della sinistra che hanno visitato nel tempo la casa, è difficile non soffermarsi sulle immagini del piccolo Berlinguer, e pensare a quel comizio condotto fino in fondo, nonostante l’ictus lo avesse già condannato.

Beato il paese che non ha bisogno di eroi. Ma beato il paese che, quando ne ha bisogno, di eroi ne possiede. È del turbamento felice che coglie l’ospite della casa di Gramsci che abbiamo bisogno; della consapevolezza di poter persino dare la vita, per l’ideale di una società migliore, e di farlo con serenità. Non viviamo in una dittatura repressiva come quella contro la quale si scagliava Gramsci; eppure, in parte proprio per questo, fatichiamo a immaginarci al suo posto, non possediamo nemmeno un briciolo del suo fervore, spesso non ci impegniamo nemmeno a pensare le cose diversamente da come appaiono. La nostra moribonda democrazia ha purtroppo bisogno di eroi, ma anche di cittadini che dell’esempio di quegli eroi non si accontentino. Di cittadini che si sentano imprigionati, se si ritrovano a vivere in una società che non consente loro di cambiarla. Un salto a Ghilarza vale più di una mezza giornata.
Gianni Vattimo

Le aziende europee e i diritti umani in Colombia


Note di un viaggio in Colombia compiuto tra il 20 e il 24 luglio... postate sul blog de Il Fatto Quotidiano.

Le aziende europee e i diritti umani in Colombia


Può sembrare inutile o strano che un europeo racconti queste cose a un pubblico latino-americano, ma una delle impressioni riportate in questo viaggio è che proprio in America Latina queste notizie siano meno conosciute di quanto dovrebbero. Dunque: sono stato a Bogotà insieme a una delegazione di parlamentari europei, membri del Parlamento di Londra e di sindacati britannici. La delegazione era stata organizzata da un gruppo con sede e a Londra che si chiama “Justice for Colombia”, e che si interessa delle violazioni dei diritti umani che accadono in quel paese. Già alcuni mesi fa, un gruppo di sindacalisti e politici colombiani aveva visitato il Parlamento europeo chiedendo ai parlamentari di non approvare l’accordo di libero commercio (Free Trade Agreement, FTA) tra Unione Europea e Colombia che la presidenza spagnola dell’Unione (nel semestre gennaio-giugno 2010) aveva voluto a tutti i costi firmare, e che diventerà esecutivo solo dopo l’approvazione del Parlamento. Le ragioni della opposizione all’accordo sono presto dette: mentre le norme generali europee per questo tipo di accordi prevedono che essi siano condizionati dal rispetto dei diritti umani fondamentali da parte dei contraenti, il Parlamento europeo sa benissimo che questi diritti sono gravemente e continuamente violati in Colombia. Una delle ultime evidenze è la fossa comune (duemila cadaveri secondo i sindacalisti e l’opposizione; SOLO (!) 429 secondo il governo) scoperta di recente in un villaggio chiamato La Macarena, nel nord del Paese. Questa fossa è in un campo a ridosso di una base militare dell’Esercito Colombiano; e il governo sostiene che i corpi ivi sepolti siano di guerriglieri uccisi in combattimento. Anche solo seppellirli senza identificazione sarebbe già una violazione di fondamentali diritti. Ma ci sono buone ragioni per pensare che la versione del governo – che siano guerriglieri uccisi in battaglia – sia falsa.

La scoperta della Macarena accade più o meno contemporaneamente al venire in luce di un altro scandalo gravissimo, anche se per ora limitato a un numero minore di vittime. È il caso noto come lo scandalo dei “falsos positivos”: diciassette giovani reclutati da membri della polizia nel sobborgo più povero di Bogotà, Soacha, con la promessa di un lavoro nel nord del Paese; portati lontano dalle loro case, uccisi e sangue freddo (spesso con un colpo alla testa, a bruciapelo), e poi frettolosamente travestiti da guerriglieri (con errori grotteschi: alcuni hanno ai piedi due stivali sinistri) per riscuotere la taglia che nel frattempo il governo di Uribe (e del suo ministro della difesa, Santos, nuovo presidente eletto che entra in carica il 7 agosto) avevano posto sulla testa di ogni guerriglieri ucciso.

Chi dunque voglia credere alla versione governativa su La Macarena, deve prima superare tutta la diffidenza che notizie come quella dei falsi positivi (cioè dei falsi risultati che il governo chiedeva alle forze antiguerriglia) inevitabilmente suscitano. Queste notizie sono solo una piccola parte di ciò che chiunque può venire a sapere sulla Colombia di oggi: sono migliaia i sindacalisti (circa mille solo quelli dei sindacati del scuola) uccisi o fatti sparire in questi ultimi anni. Justice for Colombia ha statistiche precise che si possono facilmente consultare e verificare. Così, quando si sente dire dal presidente eletto (ha ricevuto la nostra delegazione il 22 luglio) che l’economia colombiana si sviluppa grazie soprattutto agli investimenti esteri promossi dalla fiducia nella produttività del paese, è fatale che si pensi a come proprio tutti questi omicidi che hanno distrutto un’intera generazione di sindacalisti siano la base delle fiducia degli investitori internazionali. Che sono per lo più grandi multinazionali con base in Spagna (e anche in Italia, purtroppo); il che spiega molto chiaramente la determinazione con cui il governo “socialista” di Zapatero (ahimè, quanto gli abbiamo creduto, anche noi italiani) ha voluto arrivare alla firma del trattato.

A parte tutte le altre ragioni che proprio il popolo colombiano – soprattutto i contadini che risulterebbero i più gravemente penalizzati – ha per considerare il trattato un vero disastro e un ennesimo atto di imperialismo colonialistico, ci sono anche altre significative riflessioni generali su tutta la faccenda. La criminalità organizzata sta diventando sempre più spesso, anche in Europa, una forma di garanzia della disciplina del lavoro ad uso del profitto delle multinazionali. La forza della mafia in Italia si rivela sempre più come funzionale al mantenimento dell’ordine nelle fabbriche. In molti stati europei si comincia a guardare con interesse alla formula colombiana. Del resto l’alleanza tra capitali di rapina multinazionali e criminalità organizzata sta diventando un tratto tristemente comune in tutto il mondo industrializzato. Lottare per i diritti umani in Colombia finisce per essere – anche se per ora il rischio sembra remoto – un modo per difendere la libertà sindacale e i diritti umani anche nel cosiddetto “primo mondo”.

Gianni Vattimo