venerdì 3 settembre 2010

L'articolo di Jacopo Iacoboni sull'omosessualità a Cuba, da "La Stampa" di ieri.

Il mea culpa di Castro sui gay
e i ricordi dei "pellegrini all'Avana"

E adesso vien da chiedersi cosa significa tutto questo, qual è la storia da cui promana, perché proprio ora e, in definitiva, non è ormai troppo tardi?
Il papa dell’ultimo comunismo, il cubano Fidel Castro, risorge per l’ennesima volta dalle sue presunte ceneri chiedendo scusa per le persecuzioni dei gay. Lo fa in un’intervista al quotidiano messicano «La Jornada», non al leggendario organo di partito cubano «Granma»: «Voglio chiedere scusa agli omosessuali» per averli perseguitati negli anni ‘60 e ‘70 (soltanto?), «se qualcuno è responsabile sono io, non darò la colpa a nessuno». «Personalmente non ho pregiudizi», ma aver spedito migliaia di gay nei campi di lavoro è stata «una grande ingiustizia». A 84 anni, sia l’ultima resurrezione o una patetica svolta senile, è probabilmente un cercato pretesto per indicare al mondo che esiste ancora un posto chiamato Cuba. E la sua storia è inesorabilmente legata a quella, almeno intellettuale, di molti pezzi d’Europa. Italia compresa.
Tra i tantissimi intellettuali che fecero «il viaggio a Cuba», quelli che Paul Hollander chiamò «i pellegrini dell’Avana», Gianni Vattimo, filosofo, comunista, gay, è stato uno dei più assidui. Uno che tenacemente non ha cambiato idea. «L’ultima volta che sono stato a L’Avana ho parlato a lungo con Mariela, la nipote di Castro, che si è spesa per far cessare le leggi omofobe. E sì, tutti i miei amici europei mi dicono “tu a Cuba saresti in galera”. Però vorrei ricordar loro che nel ‘59, quando Castro prese il potere, lasciò ampia libertà ai capi locali. E furono questi, omofobi come forse anche Castro, a volere la repressone, perché omofoba era la società tutta. Le cose peggiorarono ancora all’arrivo dei sovietici. I gay furono attaccati anche come presunte spie, e vissero due stagioni molto dure. Ricordo che il mio amico Reinaldo Arenas, scrittore incarcerato perché gay, divenne un simbolo; ma ricordo anche che esistevano molti gay filocastristi, i quali mi dissero che l’incarcerazione di Arenas era dovuta non alla sua omosessualità, ma a certi suoi adescamenti di minori... Ovviamente non potei mai verificarlo. Lo rammento per dire che esistevano anche dei gay pro Castro».
Ma come, e le persecuzioni, le uccisioni, le inutili (e, per la verità, sporadiche) mobilitazioni in Occidente? «Voglio solo dire che anche a Cuba la realtà è stata più complessa, e ha visto diverse fasi», spiega il filosofo eurodeputato. «Mi raccontano che oggi a Cuba gli omosessuali fanno tutti il comodo loro, anzi - sorride ironico - quasi quasi mi spiace non esserci andato di recente... L’ultima volta, nel 2006, Castro mi faceva girare con una vistosa Mercedes nera che rendeva un po’ difficili i contatti».
Certo i tempi erano mutati da un po’. Anche prima delle chiacchiere su Raul, o della battaglia anti-omofobia di sua figlia Mariela. Mario Vargas Llosa narrò di quando Carlos Franqui, direttore del quotidiano «Revolución», assisteva ai Consigli dei ministri a Cuba, nei primi anni ‘60: Fidel e i suoi luogotenenti domandavano ai Paesi fratelli che politica consigliassero per porre un freno al «problema omosessuale». «La risposta della Cina popolare di Mao - annotò Vargas Llosa - fu netta: “Non abbiamo questo problema. Li fuciliamo tutti”».
Tutto un mondo era omofobo, e Castro seguiva. Rossana Rossanda, una delle testimoni di quelle stagioni, già sul “manifesto” scrisse della sua disillusione sul castrismo. Nel ‘67 la colpì tra l’altro che, durante un pranzo con Castro e K. S. Karol, il lìder maximo si fosse dichiarato all’oscuro delle purghe a Mosca negli anni ‘30. Poi Karol scrisse «La guerriglia al potere», e per i cubani divenne un «servo della Cia». «Non vado più a Cuba da allora - ricorda adesso la Rossanda -. E non posso sapere molto di ciò che motiva l’uscita di oggi. Certo mi fa piacere che Castro si apra ai diritti civili. Quello che posso raccontare è che allora l’omofobia in tutto il continente americano, non solo a sud, era diffusa nella società, e in modi del tutto trasversali. Non solo nei partiti comunisti. Quella di Castro, poi, non era solo omofobia, era sessuofobia tout court. Era terrorizzato anche dai rapporti tra uomini e donne, normali in Europa in quella stagione. Ricordo che una volta, all’Avana, io non avrei avuto nessun problema a dormire nella grande tenda dove c’erano anche soldati. Fu lui a dirmi “signora, la prego, sa, da noi queste cose non si usano”...».

1 commento:

Anonimo ha detto...

"Tutto un mondo era omofobo, e Castro seguiva", scrive l'autore dell'articolo con l'intenzione di riassumere il pensiero di Vattimo (sarà d'accordo?). Meglio non dare "alibi" a Castro, limitiamoci a prendere atto del suo mea culpa.

Giovanni Schiava
Taurianova (RC)