lunedì 28 marzo 2011

Per colpa dei leghisti metteremo la coccarda. Intervista a Gianni Vattimo

Per colpa dei leghisti metteremo la coccarda. Intervista a Gianni Vattimo

Umbrialeft.it

di Tonino Bucci

Ci siamo. Dell’Unità d’Italia che oggi si festeggia giunge solo l’eco delle guerricciole simboliche tra i leghisti e il fronte dei patriottici del Pdl. Inno di Mameli o meno, la scenografia del centocinquantenario appare piccola, anzi microscopica, dinanzi alle notizie che giungono dal mondo. Qual è, di fronte ai disastri planetari del Giappone, la forza autocelebrativa di un paese che a malapena, ancora oggi, può proclamarsi davvero unito nella cultura e nelle condizioni materiali? Ma c’è, soprattutto, da confessare un certo imbarazzo nell’essere presi tra due fuochi: la retorica antirisorgimentale dei leghisti, da un lato, che riabilitano il tregionalismo, le piccole patrie, i localismi, un’Italia insomma in cui i diritti valgano solo in funzione delle appartenenze etniche; e dall’altro la melassa della retorica, il viva l’Italia dei talk show, l’inno di Mameli (con tutto il rispetto per questo combattente caduto a difesa della Repubblica romana) trasformato nella colonna sonora del vogliamoci bene. E’ con Gianni Vattimo, filosofo, teorico del pensiero debole e torinese di nascita, che ne parliamo.

Non saremmo mica costretti a scegliere tra il delirio dei leghisti e la retorica di facciata?

Questa melassa è uno degli effetti collaterali del fatto che c’è la Lega. Io vado al Gay Pride solo perchè c’è il Papa che ce l’ha con noi e rompe l’anima, altrimenti non mi muoverei. Di solito non indosso le piume di struzzo. Se non ci fosse, la Lega bisognerebbe inventarla. Che motivo ci sarebbe di tanta retorica per in centocinquantenario? Se le persone vanno in giro con la coccarda è perchè ce l’hanno con questi razzisti xenofobi – e anche un po’ imbecilli – dei leghisti. Al di là della presa di posizione antileghista – che è sacrosanta e che dovrebbe però avere la forza di sbaraccare la Lega – c’è qualcos’altro in questa celebrazione? Mi ricordo del centenario del 1961. L’Italia di allora non era mica ossessionata dall’inno. Si pensava piuttosto a come conquistare le olimpiadi, a rimediare soldi per finanziare opere pubbliche. La celebrazione era un’occasione per il miglioramento collettivo, economico, architettonico. Francamente non ricordo che ci fosse un grande spirito nazionalista o un amore spropositato per il tricolore. Il fascismo era finito da poco, il nazionalismo era oggetto di culto del Movimento sociale.

La sinistra italiana – a parte Craxi – ha sempre guardato con sospetto all’idea di nazione, troppo legata all’uso imperialistico che storicamente ne ha fatto il fascismo. Eppure, di fronte alla Lega che esalta le piccole patrie, siamo costretti a rispolverare il concetto di nazione che, in fondo, combinato con la Costituzione, è garanzia di uno spazio universalistico dei diritti. O no?

E’ vero. Per la sinistra può essere una buona occasione, di distinguere il nazionalismo da un concetto di nazione che non contraddica la solidarietà internazionale. Solo che oggi è diventato tutto una melassa e francamente di questa retorica per l’Unità ne farei volentieri a mano. Io mi sento italiano quando mi metto a tavola e quando gioca la Nazionale, per il resto non me ne importa niente. L’unico patriottismo che si può rivendicare oggi è quello costituzionale, come dice Habermas. Sono affezionato a una certa tradizione politico-culturale a condizione che non escluda le altre. Anche il dialetto mi piace. Che poi l’Italia unita sia meglio di quella disunita, di questo non sono pienamente convinto. Non vorrei sembrare leghista, ma perchè la gente lottava per l’unità d’Italia? Perchè credeva in una trasformazione più radicale, che non riguardasse soltanto il passaggio di sovranità, dai Borboni ai Savoia, ma cambiasse anche le condizioni sociali ed economiche. Non ci si ribellava soltanto all’oppressione dello straniero, ma all’oppressione in generale. Ci è mancata una rivoluzione sul modello di quella francese, che non è stata una semplice rivoluzione nazionalista. Io credo che il Risorgimento muovesse gli animi non solo con le parole d’ordine unitarie, ma anche con aspirazioni socio-politiche. Dell’Italia una d’arme, di lingua, d’altare non ce ne frega niente sinceramente. E poi c’è l’aspetto colonialistico di un’unificazione che ha assunto la forma di un’espansione dei Savoia. Questo è stato il nostro Risorgimento, condizionato dalla presenza di una casa regnante che ha occupato il sud e ha fatto la guerra ai contadini del meridione chiamandoli briganti. Ma vorrei fare anche un’altra considerazione. Mazzini, Cavour e Garibaldi avevano un progetto e l’hanno realizzato senza che un popolo fosse chiamato a votarlo. Io sono molto sensibile ai limiti della democrazia formale. Quei personaggi non rappresentavano la maggioranza, erano un’elite che aveva un progetto ed è riuscita a realizzarlo. I plebisciti certo sono stati fatti, ma erano elezioni corrette dal punto di vista procedurale, chissà? Ma allora non capisco perchè la gente celebri il Risorgimento e poi se la prenda, che so, con un Fidel Castro perché a Cuba non ci sono le elezioni.

Nella retorica ufficiale non c’è nessuna traccia dell’anima anticlericale che ha segnato il nostro Risorgimento, perlomeno dal 1848 in poi. Non trova?

E’ diventato un valore così isituzionale che nelle celebrazioni ci deve essere anche il vescovo. Sennò che celebrazione è? Mi è capitato di scrivere di recente la prefazione alla raccolta di scritti di Vittorio Gorresio (storico e giornalista de La Stampa scomparso nell’82, ndr), uscita col titolo Risorgimento scomunicato. Ne avessimo di lotte anticlericali come quelle là. C’erano anche dei cattolici che odiavano il Papa.

Nel dopoguerra c’è stato un momento di recupero del Risorgimento, del quale la Resistenza era considerata la prosecuzione e il compimento. Non è così?

La teoria popolare a Torino, negli anni in cui iniziavo a frequentare l’università, era che la Resistenza era stata il compimento del Risorgimento. Lo stesso Gramsci si sentiva in continuità con la rivoluzione liberale dell’Ottocento – e con lui, Gobetti. Ma oggi l’abbracciare la retorica risorgimentale è anche un segno che non sappiamo dove sbattere la testa.

Veniamo da anni di disincantamento della politica. Anche la sinistra nei discorsi pubblici ha ostentato pragmatismo e realismo. Cosa è sucesso, oggi abbiamo bisogno di reincantare di nuovo la politica? Dove la prendiamo una nuova religione civile?

Tutto il fervore centocinquantenario di Torino non è dovuto solo a bassi motivi economici, a interessi turistico-alberghieri – c’è gente che ci guadagna, come con la Tav – è che proprio non sappiamodove sbattere la testa. Questo è un paese che non ha una religione civile, nè un’ideologia politica in grado di muovere e commuovere. Voi di Liberazione lo sapete. Una volta doveva venire Baffone, oggi non c’è niente da aspettare, non abbiamo niente in cui credere e dobbiamo rispolverare le memorie di famiglia. Forse il mito del futuro sarà l’ecologismo. Le notizie che arrivano dal Giappone ci costringono a prenderne atto. C’è poco da festeggiare.

domenica 27 marzo 2011

Un mondo vecchio in guerra


Articolo postato sul mio blog de Il Fatto quotidiano.

Un mondo vecchio in guerra

Scrivere qualcosa di sensato sulla guerra in Libia è difficile. Ed è difficile scrivere qualcosa di sensato in generale su guerre come questa, ora più che mai. Lo si poteva forse fare alla vigilia dei primi interventi militari post-guerra fredda, Iraq e seguenti. Ma ora, appesantiti da queste esperienze, non possiamo che leggere e rileggere l’articolo di Massimo Fini, pubblicato dal Fatto Quotidiano e ripreso da MicroMega, e trovarci sostanzialmente d’accordo con lui.

Siamo in guerra, con buona pace (appunto…) dell’Onu, del presidente Napolitano e di tutti gli interventisti umanitari. E lo siamo in tutta rapidità, con una facilità disarmante (la guerra s’impadronisce anche del lessico), ci siamo scivolati dentro senza accorgercene. Tanto che, a ben guardare, i veri risultati che otterremo sono proprio quelli indicati da Fini: creeremo un precedente senza precedenti, appunto, quello di un intervento nel dominio riservato di uno stato che non ha invaso alcun vicino, ma il cui potere centrale si ribella alla ribellione di una parte del paese che non ha mai digerito l’unità. Ravviveremo il terrorismo, ben felice dell’evoluzione della crisi, legittimando per altro qualsiasi ritorsione libica. Proteggeremo i nostri interessi, facendoci come al solito portatori di un’ideale di democrazia che è tale proprio perché ci fa comodo, anzi ci permette di fare i nostri comodi.

Interveniamo per fini umanitari, contenti di non essere stati chiamati in causa per l’Egitto – agire contro Mubarak sarebbe stato francamente troppo, per gli Stati Uniti e i tanti foraggiatori del tiranno – ma consapevoli dell’impossibilità di veder passare i cadaveri sulle rive – sulle spiagge – libiche. Se il popolo ce la fa da solo, esultiamo. Altrimenti, interveniamo. Imponendo, in entrambi i casi – perché è sempre possibile, dopo, lamentarsi del pericolo dell’estremismo islamico –, lo standard democratico occidentale come regola del brave new world.

Il problema principale, come sempre in questi casi, è che bisognerà attendere per sapere che cosa avremmo dovuto fare. Avremmo dovuto applaudire l’invasione della Cambogia polpottiana da parte del Viet Nam, e invece, ai tempi, ci scandalizzammo per la prima guerra tra due paesi comunisti. Avremmo dovuto fermare il massacro in Rwanda, e sicuramente avremmo dovuto intervenire per fermare la guerra in Jugoslavia. Ma avremmo potuto (dovuto) agire prima, non dopo: avremmo dovuto discutere pubblicamente, come Europa, anziché limitarci a osservare attoniti, l’immediato riconoscimento, da parte della Germania e dei paesi europei, delle rivendicazioni nazionali di Slovenia e compagni. Avremmo forse capito che l’adozione di una strategia pura di economic self-interest produce conseguenze non desiderate, e non solo la felice mano invisibile smithiana, ma anche l’irrobustimento di nazionalisti alla Milosevic.

Ma ora e qui (in Libia), che fare? Protestare, innanzitutto, per lo smaccato asservimento della politica internazionale agli interessi economici: laddove questi interessi non esistono, il problema dei diritti umani non si pone. Indignarsi per il comodo pretesto, quello dei diritti umani (che purtroppo, anche quando lo si impiega in buona fede, resta un pretesto nella realpolitik internazionale), utilizzato per bombardare un paese – pardon, per salvaguardare una “no-fly zone” – e non semplicemente per bloccare, e al limite persino deporre, un tiranno. Vergognarsi per l’osceno spettacolo della diplomazia internazionale – il terrificante Sarkozy e l’arrivista Cameron; la Nato invocata da chi ne fa parte ma non la comanda, perché chi la comanda ha paura degli effetti che il vessillo provocherebbe; la nostra, inqualificabile, accoppiata tra maestro di sci e cantante da crociera; la formazione della santa alleanza anti-Bric (Brasile, Russia, Cina, India) e, come ricordava Paolo Ferrero, persino l’inserimento di un vero e proprio campione della democrazia, il Qatar, nel gruppo dei crociati.

A dirla tutta: non sarebbe ora di smetterla di usare le Nazioni Unite come paravento? Quale legittimità può ormai derivare all’Onu, oggi, da un accordo approvato nel 1945, che assegna esplicitamente alle potenze vincitrici di una guerra mondiale il compito di mantenere la pace, e che come tale non ha mai funzionato (la pace fu assicurata dal regime di terrore freddo retto dalle due superpotenze, e quando questo venne meno, l’Onu finì per autorizzare guerre che non potevano contare sul consenso della parte sconfitta, la Russia post-sovietica). Il Consiglio di Sicurezza è un organo non democratico e, più semplicemente, vetusto. Un’Europa illuminata dovrebbe preoccuparsi innanzitutto di ridiscutere gli organismi di cooperazione internazionale con i paesi Bric. Allora sì, potremo chiederci legittimamente cosa fare con la Libia e il suo regime. Non avere una guerra mondiale e i suoi vincitori alle spalle può essere una debolezza, ma anche una forza, se sfruttata per creare un’istituzione che sia realmente sovranazionale, che possa guardare (un po’ più) all’interesse generale. In ogni caso, la questione si pone con urgenza. Le tecnologie invecchiano, come Fukushima insegna. Tutto il nostro mondo è troppo vecchio: è vecchio l’Fmi, è vecchia l’Europa, è vecchia l’Onu. E, alla prossima crisi, i Bric non staranno a guardare.

Il ragazzo che credeva ai miti


Il ragazzo che credeva ai miti
L'Espresso, 24 marzo 2011

Furio Jesi (1941-1980) è stato una delle figure intellettuali più vivaci nell'Italia della seconda metà del Novecento. Un enfant prodige: negli anni Cinquanta già si era fatto notare per importanti studi nel campo dell'archeologia e della scienza delle religioni. Il suo primo libro (sulla Ceramica egizia) esce a Torino, città dovev vive, nel 1958. Da quegli stessi anni comincia a intessere un rapporto epistolare con maestri del pensiero che, come anzitutto Karoly Kerenyi, ne apprezzano il lavoro. I libri dello studioso ungherese del mito e della religione antica costituiscono il nerbo della famosa Collana viola curata per l'Einaudi da Cesare Pavese. Lo studio del mito e il rapporto con Kerenyi (terminato tra il 1967 e il 1968, perché Jesi, ebreo, assume un atteggiamento critico nei confronti della guerra dei Sei giorni, e poco dopo si schiererà con gli studenti contestatori) sono il filo conduttore della vita di Jesi, che pubblica negli anni della maturità libri come "Letteratura e mito" e "Cultura di destra". Una maturità che si interrompe repentinamente, a causa di un banale incidente domestico. Il denso libro che ora gli dedicano Marco Belpoliti e Enrico Manera (a cura di) "Furio Jesi" (Marcos y Marcos, pp. 349, euro 25), in cui si raccolgono sia frammenti delle sue opere, sia numerose testimonianze e studi sul suo lavoro - apre un orizzonte vastissimo su tutta la cultura italiana ed europea del secolo scorso. Di essa Jesi è stato, e merita di essere considerato ancora per il futuro, uno dei più suggestivi e determinanti protagonisti.
Gianni Vattimo

Un giorno da pecora, centoquattresima puntata


Un giorno da pecora

Clicca qui per ascoltare la puntata

Federico Moccia dice che la protagonista del suo libro non è come Ruby, Gianni Vattimo dice che non ha avuto tempo per leggere i libri di Moccia mentre Candida Morvillo parla degli accappatoi dell'Hotel Vesuvio.

mercoledì 16 marzo 2011

Gheddafi, noi e l'America Latina

Ecco un recente post sul blog che tengo per Il Fatto Quotidiano.

Gheddafi, noi e l'America Latina

Non è certo dall’Italia di Berlusconi che può venire una lezione sul modo politicamente corretto di comportarsi nei confronti di Gheddafi. Abbiamo anche di recente ricevuto il dittatore libico con onori che sono apparsi fin da allora imbarazzanti, anche in un paese abituato alle follie di Berlusconi (il quale si è spinto fino a baciargli l’anello). Mentre persino dopo i sanguinosi massacri dei primi giorni della rivolta, il governo nasconde sempre meno la propria nostalgia per i vantaggi offerti da Gheddafi: petrolio, repressione spietata delle migrazioni clandestine, affari di ogni genere per le ditte italiane.

Ma allora come si spiegano i rapporti privilegiati che Gheddafi sembra intrattenere con i governi “di sinistra” dell’America Latina? La domanda che viene subito in mente a tal proposito è: di dove vengono le armi con cui Gheddafi e i suoi mercenari sterminano oggi gli oppositori del regime nelle piazze delle città libiche? Non sono certo armi venezuelane. Vengono da Inghilterra, Francia, Italia, che le hanno fornite in abbondanza negli anni recenti. Normali rapporti di affari, come ci dicono i governi europei che sembrano scoprire solo oggi il carattere dittatoriale del regime libico. Rapporti che gli Stati Uniti hanno, spesso tacitamente, approvato: una recente intervista di Cesare Romiti, ex amministratore delegato della Fiat, conferma che la Cia era stata consultata in occasione dell’ingresso di capitale libico nella proprietà dell’azienda torinese.

Dovremmo dunque vergognarci, noi che continuiamo a guardare con simpatia e speranza ai governi di sinistra dell’America Latina, per quella che sembra una “amicizia” tra Chavez e Gheddafi? Un po’ paradossalmente ma non troppo, potremmo rispondere che, se una tale amicizia esiste, è ispirata da motivi molto più “nobili” di quelli che hanno motivato fin qui la tolleranza verso Gheddafi dei governi filoamericani come quello italiano. Nel senso che ciò che hanno avuto e ancora hanno in comune Gheddafi e Chavez è l’antiamericanismo, cioè una posizione anzitutto politica e ideologica che appare molto più difendibile delle ragioni di affari che muovono personaggi come Berlusconi. Ragioni di affari che non hanno niente a che fare con il bene dei rispettivi popoli, ma solo con l’arricchimento delle varie oligarchie economiche. Se dunque ci sono eccessi di tolleranza di Chavez, o anche di Cristina Kirchner, verso Gheddafi, essi sono errori ampiamente comprensibili nel quadro della lotta globale tra imperialismo americano e forze anticapitalistiche che lo contrastano.

È un discorso che vale anche nei confronti di governi come quello iraniano: davvero possiamo condannare Lula perché riconosce le buone ragioni di Amadinejad? Possiamo certo deprecare molti comportamenti del regime di Tehran (pena di morte, persecuzione degli omosessuali e di altre minoranze, scarsa o nulla libertà per le voci dell’opposizione, condizione delle donne), ma non per questo dimenticare che siamo di fronte al problema di una scelta di campo tra due blocchi. Con l’aggiunta che proprio dal campo in cui hanno a lungo imperversato (con la tolleranza degli Usa) dittatori come Gheddafi, Mubarak, Ben Ali, vengono oggi segnali di rivolta che non devono essere utilizzati per scopi di restaurazione: per esempio giocando la “amicizia” di Chavez per Gheddafi come strumento per screditare gli sforzi autenticamente progressisti che il governo venezuelano sta facendo per realizzare una società più vicina agli ideali del socialismo. Così, se per fermare le stragi di Gheddafi dovessimo oggi augurarci un intervento degli Usa in Nord Africa, davvero tradiremmo il sacrificio dei tanti giovani libici, e tunisini ed egiziani, che hanno dato la vita per la loro nuova speranza di libertà.

Gianni Vattimo

domenica 13 marzo 2011

Vittorio Gorresio, "Risorgimento scomunicato". Con prefazione di Gianni Vattimo

Pubblicato la prima volta nel 1958 dall’editore fiorentino Parenti, “Risorgimento scomunicato” raccoglie gli scritti di Vittorio Gorresio per “Il Mondo”, una serie storica di articoli dal titolo “Processo al clero dopo il ‘60”. Storico appassionato, intransigente documentatore, Gorresio traccia una puntuale e puntigliosa ricostruzione delle origini dei contrastati rapporti tra Stato e Chiesa che resero tanto drammatico il Risorgimento. La descrizione dell’intransigentismo clericale rispetto alla progressiva laicizzazione dello Stato italiano ci è fornita dall’autore attraverso la meticolosa raccolta di missive tra membri del governo ed esponenti del clero, cui si aggiungono le dettagliate ricostruzioni degli episodi salienti e del profilo dei personaggi che di questo travagliato periodo storico si resero protagonisti. Vengono descritte, in sequenza, le vicende di una Chiesa, scomunicante e punitiva, addirittura iettatoria, di là dalla trasformazione che, negli anni a seguire, la renderà refrattaria, incapace di stare al passo con la storia, cioè con l’evoluzione della coscienza morale e politica dei cittadini laici. L’attualità del pensiero di Gorresio sta, infatti, tutta nella rilettura storica e cognitiva degli eventi che hanno prodotto il presente, come cita Gianni Vattimo nella sua prefazione: “Se la Chiesa si riduce oggi a una multinazionale […] ciò è anche il risultato dell’uso che essa stessa ha fatto dei suoi strumenti spirituali”.

Vittorio Gorresio, giornalista, scrittore e saggista nacque a Modena da famiglia piemontese il 18 luglio 1910. Inviato speciale e corrispondente di guerra per “Il Messaggero” di Roma, fu tra i più efficaci espositori del dramma del dopoguerra sulle colonne della testata “Risorgimento Liberale”, quotidiano diretto da Mario Pannunzio col quale collaborò anche per il settimanale politico “Il Mondo”. Firma prestigiosa anche de “L’Europeo” di Arrigo Benedetti, Gorresio scrisse una decina di saggi storici ottenendo importanti riconoscimenti giornalistici e premi. Nel 1980 l’autobiografia “La vita ingenua” gli valse il Premio Strega. Lavorò fino a poco prima della sua morte, nel 1982, curando la rubrica “Taccuino” per il quotidiano “La Stampa”.

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Blog; http://edizionilazisa.blogspot.com/ Ad aprile in libreria: Vittorio Gorresio, “Risorgimento scomunicato”, Prefazione di Gianni Vattimo, Edizioni La Zisa, pp. 200, euro 16,90

L'Europa ha bisogno di socialismo

'L'Europa ha bisogno di socialismo'
TOSCANA - 05/02/2011 - 'L'Europa non ha mantenuto le promesse e l'economia ha prevalso sulla politica'.

Questo è il riassunto del pensiero del fisolofo Gianni Vattimo, intervenuto alla tavola rotonda sull'Europa e' morta?, che si è svolta sul palcoscenico del teatro Metastasio di Prato. Il filosofo del 'Pensiero debole', che in Europa ha profuso anche il suo impegno politico come parlamentare a Strasburgo ha ricordato come il vecchio continente 'sia debole perché il governo europeo, che pur non esiste, avrebbe dovuto fronteggiare il capitale e le multinazionali e non vi è riuscito'. Per Vattimo c'è bisogno di socialismo 'inteso come solidarietà' e questa è l'utopia che avevano i padri fondatori come Adenauer, Schumann e De Gasperi'. Il filosofo torinese ha anche accennato alla scarsa considerazione che gode l'Italia nel contesto internazionale a causa del Governo Berlusconi: 'forse di dovrebbe essere nazionalisti, ma certo che il presidente del consiglio non sta facendo niente per migliorare l'immagine del nostro paese'.
Link Toscana TV

Le musiche della vita

"Le musiche della vita": è possibile ascoltare e scaricare le puntate della trasmissione nella quale sono stato ospite ogni domenica di febbraio.

6 febbraio 2011 Gianni Vattimo - Filosofo
13 febbraio 2011 Gianni Vattimo - Il ruolo dei filosofi
20 febbraio 2011 Gianni Vattimo - Cos'è la verità per le singole epoche storiche
27 febbraio 2011 Gianni Vattimo - La necessità di "maturare" rinunciando alle durezze della gioventù

venerdì 11 marzo 2011

La chiesa verso il suicidio: lo "scisma sommerso" e il cattolicesimo


Il mio intervento (dal titolo La chiesa verso il suicidio: lo "scisma sommerso" e il cattolicesimo) al convegno "Pietro Prini: filosofo e uomo" (Belgirate, 6 marzo 2011), registrato da Radio Radicale (http://www.radioradicale.it/scheda/322671).
Qui il link al sito dedicato al filosofo (www.pietroprini.org).

A Farewell to Truth


A Farewell to Truth
Gianni Vattimo
April, 2011

Cloth, 192 pages,
ISBN: 978-0-231-15308-9
$24.50 / £17.00
Link to Columbia University Press

With Western cultures becoming more pluralistic, the question of "truth" in politics has become a game of interpretations. Today, we face the demise of the very idea of truth as an objective description of facts, though many have yet to acknowledge that this is changing.

Gianni Vattimo explicitly engages with the important consequences for democracy of our changing conception of politics and truth, such as a growing reluctance to ground politics in science, economics, and technology. Yet in Vattimo's conception, a farewell to truth can benefit democracy, exposing the unspoken issues that underlie all objective claims. The end of absolute truth challenges the legitimacy of policies based on perceived objective necessities—protecting the free market, for example, even if it devastates certain groups or classes. Vattimo calls for a truth that is constructed with consensus and a respect for the liberty of all. By taking into account the cultural paradigms of others, a more "truthful" society—freer and more democratic—becomes possible.

In this book, Vattimo continues his reinterpretation of Christianity as a religion of charity and hope, freeing society from authoritarian, metaphysical dogmatism. He also extends Nietzsche's "death of God" to the death of an authoritarian God, ushering in a new, postreligious Christianity. He connects the thought of Martin Heidegger, Karl Marx, and Karl Popper with surprising results and accommodates modern science more than in his previous work, reconciling its validity with an insistence that knowledge is interpretive. Vattimo's philosophy justifies Western nihilism in its capacity to dispense with absolute truths. Ranging over politics, ethics, religion, and the history of philosophy, his reflections contribute deeply to a modern reconception of God, metaphysics, and the purpose of reality.

About the author
Gianni Vattimo is emeritus professor of philosophy at the University of Turin and a member of the European Parliament. His books with Columbia University Press include The Responsibility of the Philosopher; Christianity, Truth, and Weakening Faith: A Dialogue; Not Being God: A Collaborative Autobiography; Art's Claim to Truth; After the Death of God (with John D. Caputo); Dialogue with Nietzsche; The Future of Religion (with Richard Rorty); Nihilism and Emancipation: Ethics, Politics, and the Law; and After Christianity. Robert T. Valgenti is assistant professor of philosophy at Lebanon Valley College and specializes in continental philosophy, hermeneutics, and Italian philosophy. William McCuaig is the translator of many Vattimo books, including The Responsibility of the Philosopher; Christianity, Truth, and Weakening Faith: A Dialogue; Not Being God: A Collaborative Autobiography; and Dialogue with Nietzsche.