venerdì 30 settembre 2011

Torino spiritualità: l'Europa, il tramonto di Spengler, la scienza


Vattimo, dialoghi sull’Apocalisse
Soltanto l’Europa si sente al tramonto
La Repubblica - Torino, 28 settembre 2011. Di Enzo Carnazza

Torino Spiritualità 2011, tema: il senso della Fine, del limite; il bisogno e la paura di un'Apocalisse intesa come rivelazione dei tempi ultimi. Ne parliamo con Gianni Vattimo, filosofo, docente universitario e parlamentare europeo.
Non è significativo che proprio in questo momento, caratterizzato da crisi finanziarie e sociali molto serie, si torni a parlare di Apocalisse, sia pure nei termini filologici di Rivelazione più che nel senso corrente di catastrofe attesa?
«Ci si chiede: ha senso parlare in questi termini oggi? E che cosa dobbiamo ricavare da questo modo di vedere il mondo? In realtà non mi stupisce affatto che si parli del nostro tempo in termini escatologici. Le epoche che avvertono il cambiamento si sentono sempre tutte all'ultima spiaggia. Non si sa dove si vive, non si in quale direzione ci si muove. Per questo ci si sente apocalittici. D'altra parte, non è una novità. Dal 1945 al 1955 il mondo ha vissuto sotto l'incubo della bomba atomica e la sensazione di una fine vicina non era affatto meno acuta. Negli Anni Novanta del secolo scorso accadde la stessa cosa. È una caratteristica della modernità. Quando i tempi cambiano velocemente, per le scoperte scientifiche per esempio, accade di sentirsi inadeguati».
Non solo paura, ma anche bisogno di cambiamento, allora.
«Certamente. E infatti tanto più constatiamo l'assenza di cambiamento, tanto più vengono esasperati i termini escatologici di cui parlavamo. Perché la verità è che non cambia mai niente. Guardi, quando mi assento dall'Europa magari per una settimana senza la possibilità di leggere i giornali, torno e trovo tutto esattamente come prima. Il tempo sembra scorrere rapido, ma in realtà il cambiamento non c'è».
La svolta che non c'è ne rende urgente il bisogno?
«Da cultore di Heidegger, sostengo che l'Essere ti cambia. Ma non c'è nessun Evento in grado di cambiare la nostra vita».
Non c'è qualche cosa di specifico nel senso di smarrimento dei giorni nostri, soprattutto se confrontato con le paure della metà del secolo scorso?
«La diversità fondamentale è che queste paure sono limitate all'Occidente, direi all'Europa. Il senso di smarrimento di cui parliamo non c'è in Cina, non c'è in India. Meno che mai lo riscontriamo in America Latina, dove al contrario c'è una grande fiducia nel futuro. E tuttavia l'epoca attuale richiama per certi versi gli anni Venti del secolo scorso. Crisi della finanza, globalizzazione, incertezza diffusa, segnali di xenofobia. Le ultime scoperte, sia pure da confermare, sulla velocità dei neutrini mettono il crisi la fisica di Einstein non meno di quanto Einstein stesso mise in crisi il sapere scientifico dell'epoca precedente».
L'uomo dunque non spera più di migliorare?
Oswald Spengler
«Se ci limitiamo all'Europa, è vero quel che lei dice. Il nostro sembra essere un mondo dal quale non ci si possono aspettare miglioramenti. Oswald Spengler scrisse nel 1918 Il Tramonto dell'Occidente: c'è qualche cosa di simile a noi nell'uomo descritto da Spengler. Un uomo che non spera di migliorare, ma che punta a conservare semplicemente quel che ha. Un mondo al tramonto. Ma, ripeto ancora, questo può essere vero soltanto per questo mondo, per questa Europa. Il resto del pianeta è un'altra cosa. Anche perché gli eventi non davano ragione a Spengler. Lei parlava di Einstein. Non so se sia un caso che la teoria della relatività generale nasca a Zurigo negli stessi anni in cui proprio a Zurigo emergono le avanguardie artistiche. Erano espressioni di un mondo che stava cambiando».
Non le sembra eccessivo il ruolo attribuito alla scienza e alla tecnica, ormai tentate di dire la loro anche in discipline riservate fino a ieri a filosofi e teologi?
«Guardi, il ruolo della scienza è favorito dal prestigio sociale degli scienziati. Le tecniche e la finanza muovono risorse economiche che premiano il loro lavoro a scapito delle altre discipline. Basta vedere che cosa accade nelle nostre Università: le Facoltà umanistiche non hanno un centesimo, ormai. Lo scienziato oggi è un divo, ma solo per il prestigio sociale di cui gode, per gli interessi economici e finanziari collegati alle sue attività. Non per la capacità della scienza di offrire risposte all'uomo del nostro tempo».

Trasporto di animali vivi, la campagna "8hours"

8hours, la campagna per chiedere all'UE una legislazione sul trasporto di animali vivi
Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2011. Di Alessio Pisanò.

La campagna animalista chiede alle istituzioni comunitarie di fissare per legge il limite massimo di 8 ore per il trasporto del bestiame. Ogni anno milioni di bestie vengono trasportati sulle strade europee al limite della sopravvivenza
Ogni anno milioni di animali sono trasportati sulle strade europee troppo spesso in condizioni inaccettabili. Centinaia di bestie malnutrite e ammassate in pochi metri quadrati dove le temperature spesso superano i 40°. Animali che si feriscono e sanguinano per ore. Spesso non possono stare nemmeno in piedi perché i soffitti sono troppo bassi, ma se si sdraiano corrono il rischio di esserr calpestati
Tra le maggiori cause di questa tragedia c’è l’eccessiva durata dei trasporti. Giorni interi sulla strada, viaggi interminabili da un capo all’altro d’Europa, lungo migliaia di chilometri fino alla destinazione finale, il più delle volte il macello.

La campagna 8hours, lanciata dall’associazione animalista Animals’ Angels, chiede alla Commissione europea di stabilire il limite vincolante di 8 ore per il trasporto di animali vivi in Europa, secondo quanto raccomandato nel 2002 dal Comitato scientifico per la salute e il benessere degli animali della stessa Commissione Europea. Nel rapporto “The Welfare of animals during transport” si legge: “I trasporti di animali vivi dovrebbero essere i più brevi possibile”. Una raccomandazione finita nel cestino, visto che in Europa non esiste tuttora alcun limite. La legislazione Ue prevede infatti trasporti anche di parecchi giorni (con pause cicliche del tutto inadeguate) a patto che siano rispettate alcune semplici misure riguardanti il riposo, l´alimentazione e l´abbeveraggio delle bestie. Misure che, neanche a dirlo, vengono troppo spesso ignorate.

“Mancano totalmente i controlli”, attacca Adolfo Sansolini, coordinatore della campagna 8hours. “L’agenzia Ue incaricata, la Food and Veterinary Office (FVO) di Dublino, conta solo 4 ispettori, con milioni di animali trasportati ogni anno in tutta Europa. Va da se che è impossibile controllare in modo rigoroso”. “Con questa campagna vogliamo tradurre in pratica gli appelli della Federazione dei veterinari d’Europa”, continua Sansolini, “ovvero macellare gli animali nei punti più vicini e trasportare solo le carni refrigerate. Le 8 ore che proponiamo nascono da un’analisi della Commissione stessa ed equivalgono ad un raggio di 500 km”.

L’Italia, per la sua robusta industria alimentare, rappresenta uno degli hub principali del trasporto di animali in Europa. Secondo stime del Ministero della Salute, nel 2010 l’Italia ha importato 1.018.584 capi bovini dalla Francia, 508.305 suini dall’Olanda e 23.839 cavalli dalla Polonia. Il sospetto è che non tutti questi animali abbiamo viaggiato in condizioni accettabili. Un esempio? Nell’ottobre 2010 alcuni volontari di Animals’ Angels hanno seguito da vicino il trasporto di 315 pecore non tosate da Mota del Cuervo in Spagna fino al mattatoio di Fara in Sabina a Rieti, in Italia. Un percorso di 1917 km durato circa 24 ore. “Allo scarico c’erano quattro pecore a terra e una morta a bordo del camion”, si legge nel rapporto dell’associazione. “Gli animali a terra sono stati abbattuti d’emergenza. Il veterinario di controllo ha riscontrato diversi animali estremamente magri, altri con gravi infiammazioni oculari o affetti da mastite e zoppia”. Secondo i volontari, “c’erano 35 animali in più rispetto alla capienza del veicolo. La maggioranza toccava il soffitto con la testa o addirittura con la schiena”. E poi ancora “non c’era lettiera a bordo del camion. Quindi il pavimento era coperto di urine e deiezioni ed era molto scivoloso”.
Animals’ Angels teme che questo caso sia tutt’altro che un’eccezione. “In Italia le condizioni di trasporto sono migliorata dal 1999, quando nel porto di Bari morirono centinaia di pecore”, ammette Sansolini, “ma ci sono ancora troppe situazioni ufficialmente legali ma assolutamente non legittime”.
Per questo motivo la campagna 8hours vuole consegnare alla Commissione europea un milione di firme affinché intervenga al più presto, non escludendo, in caso di fallimento, di usare quelle stesse firme per adire la nuova legge d’iniziativa popolare che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, permette ai cittadini di rivolgersi direttamente a Bruxelles. L’associazione sta cercando di portare dalla sua parte il Parlamento europeo, interlocutore privilegiato della Commissione, cercando adesioni tra gli Eurodeputati. Tra gli italiani, hanno già aderito alla campagna David Sassoli e Gianni Pittella (Pd), Cristiana Muscardini (Fl), Andrea Zanoni, Sonia Alfano e Gianni Vattimo (IdV).

mercoledì 28 settembre 2011

Interrogazione parlamentare sulle discriminazioni su base sessuale (legge GB su unioni civili e no italiano a unioni civili nei consolati britannici)

Interrogazioni parlamentari
15 settembre 2011
E-008233/2011
Interrogazione con richiesta di risposta scritta
alla Commissione
Articolo 117 del regolamento
Gianni Vattimo (ALDE) e Sonia Alfano (ALDE)

 Oggetto: Discriminazione in base all'orientamento sessuale — Legge britannica in materia di unioni civili — No dell'Italia alla celebrazione di unioni civili tra omosessuali nei consolati britannici
Le coppie omosessuali che vogliono far registrare nei consolati esteri la loro unione, celebrata ai sensi della legislazione britannica in materia, vale a dire del Civil Partnership Act del 2004 e del Civil Partnership Order del 2005, stanno avendo serie difficoltà e, talvolta, si vedono addirittura negare questa possibilità. I due atti, infatti, stabiliscono che a tal fine deve essere presentata una richiesta al paese ospitante, che può opporsi alla registrazione (cfr. sezione 210(2)(c) del Civil Partnership Act). L'associazione Certi Diritti ha denunciato una serie di casi in cui il governo italiano si è opposto alla registrazione delle unioni civili nei consolati del Regno Unito.
Non ritiene forse la Commissione che la legislazione britannica spiani la strada a una discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale, dal momento che le unioni civili sono consentite solo alle coppie omosessuali? Non ritiene forse la Commissione che l'opposizione del governo italiano a che le unioni civili siano celebrate nei consolati del Regno Unito in Italia rappresenta una discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale? Non ritiene forse la Commissione che una simile discriminazione ostacoli la libera circolazione e l'uguaglianza dei cittadini dell'UE?

Censura e omofobia su Rai 1: il testo italiano dell'interrogazione al Parlamento europeo

Ne avevamo dato notizia qui, riportando un comunicato dell'Associazione Certi diritti. Ecco il testo italiano dell'interrogazione.

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-008441/2011
alla Commissione
Articolo 117 del regolamento
Sophia in 't Veld (ALDE), Sonia Alfano (ALDE), Renate Weber (ALDE), Alexander Alvaro (ALDE), Ramon Tremosa i Balcells (ALDE), Gianni Vattimo (ALDE), Baroness Sarah Ludford (ALDE), Cecilia Wikström (ALDE), Niccolò Rinaldi (ALDE) e Frédérique Ries (ALDE)
Oggetto:       Censura omofoba da parte del canale televisivo pubblico italiano RAI 1
Il canale della televisione di Stato italiana RAI 1 ha recentemente censurato un episodio della serie TV tedesca "Um himmels willen" ("Un ciclone in convento") perché conteneva delle scene del matrimonio di una coppia omosessuale. La RAI non è nuova a episodi di censura omofoba: a dicembre 2008 aveva censurato delle immagini del film di Ang Lee "Brokeback Mountain" in cui i due protagonisti si scambiavano un bacio, mentre aveva trasmesso immagini simili con persone di sesso diverso.
Può la Commissione chiarire se tale forma di censura omofoba da parte di un canale televisivo pubblico è conforme ai diritti e ai valori fondamentali dell’UE quali la libertà di informazione e di espressione nonché al divieto di discriminazione basata sulle tendenze sessuali, con particolare riferimento alla direttiva 2010/13/UE del 10 marzo 2010 relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi (direttiva sui servizi di media audiovisivi)?

Egitto, Libia, Palestina... intervista a Gianni Vattimo sulla situazione internazionale

Egitto post-Mubarak, Gianni Vattimo: rimpiangeremo Ruby e suo zio?
Prismanews, Matteo Pinosa, 25 settembre 2011

Quanto la primavera araba abbia sconvolto le dinamiche geopolitiche della zona medio-orientale è sotto gli occhi di tutti.
Un’ulteriore novità potrebbe arrivare dal riconoscimento, da parte dell’Onu, dell’Autorità Nazionale Palestinese che ormai da molto tempo, con mezzi nemmeno troppo diplomatici, pretende diritti in campo internazionale.
“Bisogna però distinguere tra un riconoscimento da parte dell’Assemblea Generale ed una sanzione da parte del Consiglio di Sicurezza: il primo porta i Palestinesi ad essere riconosciuti come osservatori, alla stregua del Vaticano, per diventare membri dovrebbero avere l’approvazione del Consiglio di sicurezza dove, a quanto pare, gli Stati Uniti porranno il veto. Siamo alle solite”.
Gianni Vattimo, docente universitario ed euro-parlamentare, in lista Italia dei Valori, esterna a Prismanews le sue sensazioni su ciò che dovrà accadere nella prossima settimana al palazzo di vetro. “Forse, c’è anche il rischio che la Palestina ritiri la sua richiesta”.
Come mai? “Il governo palestinese formalmente è nelle mani di Abu Mazen, un brav’uomo che cerca di stare in equilibrio. Non so, però, se rischia di essere ricattabile. Gli Stati Uniti mandano dei soldi alla Palestina, se dicono che non ne mandano più, quello magari ritira la richiesta all’Onu.”
Senza la primavera araba, l’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe ora meno potere contrattuale in sede internazionale? “La Libia è diventata come Israele, fa tutto quello che dice l’Occidente. Diverso è ad esempio il caso della Turchia”.
Ecco, come valuta la presa di posizione anti-israeliana della Turchia di Erdogan e dell’Egitto post-Mubarak? “La Turchia fa una politica autonoma di potenza che peraltro dovrebbe far pensare coloro che non vogliono la Turchia nell’Unione Europea. Se comunque prende posizione a favore della Palestina, questo mi sembra ragionevole. Per l’Egitto bisogna capire qual è la nuova classe dirigente: sembra che vogliano garantire la laicità dello Stato attraverso un potere militare relativamente democratico. Bah, mi convince poco: non mi aspetto molto da questa classe dirigente. Non so se ci troveremo a rimpiangere Ruby e suo zio”.
Cosa fare, allora, allo Stato di Israele? “Guardi, io non dico niente perché sennò mi prendo dell’antisemita. Lo Stato di Israele dovrebbe essere moderno e laico. Per ora è uno stato confessionale in cui i cittadini non ebrei hanno meno diritti. Inoltre è uno Stato che continua ad espandersi. E’ nato male, è una costruzione artificiale destinato alla guerra perenne”.
Nella zona, però, Israele è ancora uno dei pochi Stati che riconosce diritti ai cittadini. A suo avviso quanto è grande il rischio che con l’avvento della Palestina si acuisca il fanatismo religioso?
“Secondo me il fanatismo islamico è alimentato da questa situazione di oppressione, di genocidio. Se non si eliminano queste cose, la situazione sembra disperata”.
Si parlava dell’occidentalizzazione della Libia, l’Occidente in tali paesi che ruolo deve avere, attivo o marginale?
“Deve avere un ruolo attivo nel senso di aiuti, di fornitura della tecnologia. Ascoltiamo la Lega ed aiutiamoli a casa loro. Se deve intervenire come è successo in Libia rimanga a casa”.
Che posizione prenderà l’Italia? “Se non cambierà governo prenderà le posizioni peggiori. D’altra parte tutti gli Stati d’ osservanza atlantica più becera come il nostro diranno no alla Palestina”.

martedì 27 settembre 2011

Noi il debito non lo paghiamo

Dell'iniziativa "Noi il debito non lo paghiamo" avevo parlato qui. Riporto qui sotto due articoli, il primo (che ricorda appunto l'incontro previsto per il 1 ottobre a Roma) tratto dal numero odierno de Il Manifesto, il secondo (dedicato alla conferenza stampa di Cremaschi sull'iniziativa) da contropiano.org.

"Noi il debito non lo paghiamo", di Rocco Di Michele (Il Manifesto, 27 settembre 2011)
Comincia a tirare una brutta aria. Persino per una banale conferenza stampa all'aperto. Fissata a Roma davanti al Teatro Eliseo - quindi di fronte alla Banca d'Italia - si è dovuta tenere sui gradini del Palazzo delle Esposizioni, un centinaio di metri più in là. Il vecchio leone della Fiom, Giorgio Cremaschi, lo ricorda più volte ai giornalisti presenti («chi tocca Bankitalia muore»), anche per sottolineare il ruolo negativo delle banche centrali nell'indicare «soluzioni» alla crisi dei debiti pubblici: il taglio della spesa sociale. Deve far conoscere sia la scadenza (il 1 ottobre) di un'assemblea di movimenti, associazioni, formazioni politiche, sindacalisti «classici» e di base che si annuncia parecchio folta, sia le motivazioni, raccolte sotto il titolo sintetico «noi il debito non lo paghiamo». Attorno a Cremaschi attivisti delle varie aree mettono in atto la «liberazione di Mirco», nome di fantasia per un bambino nato oggi e già gravato di un debito «individuale» di 33.000 euro. Hanno portato mazzette di monete-facsimile, per sollevarlo da questo gravame.
L'assemblea di domenica mattina all'Ambra Jovinelli è autoconvocata; è nata a partire da un appello che ha già raccolto più di 1500 firme, anche al di là delle forze della sinistra e del sindacato conflittuale. Da Andrea Camilleri a Gianni Vattimo, da Valerio Evangelisti agli attivisti di ogni parte d'Italia - in testa i No Tav - fino al Popolo Viola.
La piattaforma è articolata in cinque punti: non pagare il debito, drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra, giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro (a partire dall'abolizione dei contratti precari), beni comuni per un nuovo modello di sviluppo, una rivoluzione per la democrazia (dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta). Punti a loro volta articolati e molto «ragionevoli», anche se fuori programma per tutta la politica parlamentare italiana. 


"Basta sacrifici umani, noi il debito non lo paghiamo" (di Marco Santopadre, Contropiano.org, 26 settembre 2011)
Questa conferenza stampa - esordisce Giorgio Cremaschi parlando ai giornalisti dalla scalinata del Palazzo delle Esposizioni - avremmo voluto tenerla davanti alla sede centrale della Banca d'Italia. Ma ciò che in altri luoghi è consentito qui è vietato e quindi pochi giorni fa, quando la Questura ci ha comunicato il divieto, abbiamo ripiegato per quest'altro luogo". Mentre i pochi giornalisti presenti si accalcano per piazzare microfoni e registratori il più vicino possibile alla bocca dell'esponente della Fiom, Cremaschi inizia a spiegare i contenuti e gli obiettivi dell'assemblea nazionale convocata a Roma il prossimo 1° ottobre da un vasto arco di forze sindacali, politiche e sociali che intendono così lanciare una campagna nazionale contro il pagamento del debito e affinché ai cittadini italiani sia consentito, attraverso un referendum, esprimersi su una materia tanto importante. 'E' una grande questione di democrazia perché il nostro popolo non è mai stato chiamato a discutere e decidere su questi temi.
Lo hanno potuto fare in Islanda, in Norvegia ed in altri paesi di questo continente, vogliamo che sia consentito anche a noi'. Intorno a Cremaschi i rappresentanti della sinistra interna alla Fiom - appena uscita da un conflitto forse inaspettato con la maggioranza della propria organizzazione nell'assemblea dei delegati di Cervia - e i dirigenti nazionali dell'Unione Sindacale di Base. Ma anche attivisti delle varie forze di sinistra ('a sinistra del PD' ripete più di una volta Cremaschi durante il suo intervento) che sostengono e promuovono la campagna: dalla Rete dei Comunisti a Sinistra Critica, dal Partito Comunista dei Lavoratori a Rifondazione Comunista, ed altre ancora. Alcuni mostrano ai fotografi i manifesti che pubblicizzano l'assemblea nazionale di domenica, altri sventolano mazzette di banconote facsimile da 500 euro, per un totale di 30 mila; esattamente il debito che grava su ogni neonato al momento di venire al mondo. "L'assemblea che si terrà domenica mattina all'Ambra Jovinelli - precisa Cremaschi - è autoconvocata; è nata a partire da un appello che ha già raccolto più di 1500 firme anche al di là delle forze della sinistra e del sindacato conflittuale". Si citano le adesioni dello scrittore Andrea Camilleri e quella del filosofo Gianni Vattimo, di attivisti dei movimenti sociali di ogni parte d'Italia - a partire dai No Tav - di alcuni leader del cosiddetto Popolo Viola. I rumori di fondo del traffico di Via Nazionale sono forti, due carabinieri si avvicinano per ascoltare meglio, annuiscono quando Cremaschi spiega nel dettaglio gli obiettivi della campagna contro il pagamento del debito. "In tutta Europa si discute del debito: se bisogna pagarlo, come e quando. In Italia invece siamo di fronte ad un esproprio totale di democrazia, non c'è più neanche la possibilità per noi di avere un governo democratico e legittimato. Siamo tra i cosiddetti paesi maiali, i famigerati Piigs, che ormai non hanno più neanche il diritto ad avere un governo che possa decidere autonomamente la propria politica economica. Questo certamente, in Italia, perché abbiamo un premier impresentabile e squalificato a livello internazionale che obbliga tutti a dover commentare le sue peripezie sessuali. Ma anche per responsabilità dei partiti di centrosinistra, perché di fatto non esiste una opposizione vera alle misure che la BCE e il FMI impongono ai governi dei paesi presi di mira. Queste misure distruggono ogni forma di convivenza civile e sono quindi inaccettabili. Bisogna alzare la voce contro Berlusconi ma anche contro la BCE. Vogliamo aprire uno spazio politico che ha come avversari Berlusconi ma anche il governo unico delle banche che sta distruggendo la nostra democrazia". Cremaschi non può non commentare la notizia del giorno: "Scopriamo stamattina che l'UE sta costruendo un fondo di 3000 miliardi di dollari - soldi dei lavoratori e dei cittadini - finalizzato a salvare le banche. Soldi che invece andrebbero usati per salvare il lavoro e i diritti sociali, che andrebbero investiti nello stato sociale. Vogliamo lanciare un movimento che dice chiaramente 'Noi il debito non lo paghiamo' e chiede misure politiche e sociali diverse e alternative non solo rispetto a quelle del governo Berlusconi ma anche a quelle promesse dalla cosiddetta opposizione che promette il taglio delle pensioni e ulteriori privatizzazioni. Di fronte al fallimento del Patto di Maastricht, del patto Europlus e della gestione autoritaria della crisi da parte dell'Unione Europea diciamo chiaramente che occorre mettere in discussione tutta l'architettura istituzionale dell'Europa. Chiediamo che si colpiscano finalmente l'evasione fiscale e i grandi patrimoni, che si nazionalizzino le banche, un cambiamento di rotta radicale anche nei confronti delle politiche economiche liberiste preannunciate dallo schieramento di centrosinistra che si candida a governare il paese dopo la fine ormai certa di Berlusconi. I soldi recuperati - spiega il presidente del Comitato Centrale della Fiom - non devono servire certo a ripianare il debito ma invece a pagare investimenti sociali, non possiamo fare come la Grecia che sta massacrando il proprio popolo senza risultati. Non dobbiamo più pagare le rate di questo debito: paghiamo ogni anno almeno 80 miliardi di interessi sul nostro debito. L'ultima manovra del governo - 60 miliardi di sacrifici e nuova tasse - non solo non paga il debito ma neanche gli interessi, noi stiamo subendo dei veri e propri sacrifici umani solo per pagare una parte degli interessi su un debito che non fa che crescere a dismisura distruggendo la stessa idea di civiltà e convivenza". "Il manifesto della CONFINDUSTRIA - denuncia ancora Cremaschi - è un decalogo reazionario che attacca da destra il governo Berlusconi e che ne vuole la caduta per imporre una svolta ancora più reazionaria. Le dichiarazioni di consenso e di disponibilità da parte di alcuni esponenti del centrosinistra la dicono lunga sulla mancanza di una alternativa all'interno del panorama politico parlamentare. Siamo esterni e contrari all'attuale quadro politico e in questo senso siamo in continuità anche con i movimenti che in Spagna e in Grecia sono alternativi e avversari delle destre ma contrari anche alle politiche dei rispettivi governi socialisti. Vogliamo anche in Italia costruire uno spazio politico che in Italia non esiste". Rispetto alla fuoriuscita dall'Euro il portavoce del comitato 1° ottobre chiarisce che non può essere certo una scelta di un singolo paese. "Non accettiamo che un possibile ritorno alla moneta nazionale di alcuni paesi sia la scusa per imporre ulteriori sacrifici ai loro popoli, noi vogliamo mettere in discussione radicalmente la stessa politica dei sacrifici".

il video della conferenza stampa: 


tutte le informazioni sull'iniziativa

Rovelli, conoscenza e certezza

Ebbene sì, la terra è rotonda
Perché non tutte le teorie sono equivalenti

Carlo Rovelli, La Repubblica, 27 settembre 2011

Il Zhou Bi Suan Jing (il "Classico dell'Aritmetica") è uno dei più antichi testi di matematica cinesi, completato intorno al III secolo a. C. Il libro discute, tra l'altro, della variazione dell'altezza del sole andando verso sud (a Palermo il sole è più alto nel cielo che a Milano). Basandosi sull'idea che la Terra sia piatta, lo Zhou Bi Suan Jing calcola che il Sole sia a circa 10.000 "li" sopra alla nostra testa: poche migliaia di chilometri. Più o meno nello stesso periodo, in Egitto, il direttore della Biblioteca di Alessandria, Eratostene, utilizza la stessa misura, ma si basa sull'idea che la Terra sia una sfera, e conclude che il Sole è lontanissimo e il perimetro del nostro pianeta è 252.000 "stadi", cioè 40.000 chilometri: la dimensione della Terra riportata oggi negli atlanti. Il contesto culturale della Cina della dinastia Han è molto diverso da quello del Mediterraneo Ellenistico, e culture diverse danno interpretazioni diverse della stessa osservazione. L'occidente continuerà a immaginare la Terra come una sfera (pensate a Dante), e il Sole molto lontano e grande; mentre la Cina continuerà a pensare che il Sole sia una pallina, e la Terra sia piatta.

Eratostene e lo Zhou Bi Suan Jing hanno egualmente ragione, ciascuno all'interno del proprio contesto culturale? Oppure Eratostene è più vicino alla realtà? Per usare la bellissima domanda con cui Gianni Vattimo chiude il suo dialogo con Maurizio Ferraris su Repubblica: dando ragione ad Eratostene, «credi davvero di parlare from nowhere?», di accedere alla realtà, parlando da un luogo fuori da ogni contesto culturale? Se diciamo che Eratostene ha ragione, non stiamo forse esprimendo nient'altro che assunzioni arbitrarie del nostro contesto culturale? Vattimo e Ferraris ripropongono, in versione un po' italiana, una vasta questione che ha interessato la filosofia europea ed americana, la cui eco era giunta al pubblico italiano nel "dibattito fra Analitici e Continentali" lanciato diversi anni fa da Armando Massarenti. È difendibile il realismo, messo in discussione da Vattimo e difeso da Ferraris, cioè la tesi che cose e proprietà esistano indipendentemente dalle convinzioni, dagli schemi concettuali, o dal contesto culturale?

Torniamo in Cina. Verso la fine del 1500 arrivano in Cina i gesuiti, guidati da Matteo Ricci, colto astronomo. Quando i gesuiti vengono a conoscenza delle idee dell'Istituto Imperiale di Astronomia, sorridono. Quando i Cinesi ascoltano dai gesuiti le idee astronomiche occidentali, in brevissimo tempo rinunciano al proprio punto di vista, e adottano la prospettiva occidentale. Si badi, erano tempi politicamente non sospetti: l'esercito del Celeste Impero avrebbe spazzato via facilmente qualunque armata europea. Non è certo stata la forza politica a convincere i Cinesi che l'"interpretazione" occidentale fosse migliore. Cos'è stato?

L'osservazione che i valori del vero e del falso sono intimamente influenzati dal contesto culturale è profonda ed intelligente. Parliamo dall'interno di sistemi di credenze, più o meno coerenti. Ma da questo non segue che non si possano mettere a confronto idee diverse, confrontarle, scegliere fra queste e imparare qualcosa "sulla realtà". Soprattutto non segue che la scelta sia solo questione di rapporti di potere o fattori irrazionali. La scelta può essere, anzi, il più delle volte effettivamente è determinata da un serio uso della ragione critica, che ci aiuta a vedere quale fra due alternative sia migliore: più coerente, più efficace e più confortata dai fatti.

Il motivo è che i nostri sistemi di pensiero non sono chiusi in sé stessi. Sono strutturalmente rivolti all'esterno e in continuo dialogo e scambio. Il nostro pensiero è pensiero sulla realtà, ed è in relazione costante sia con fatti inaspettati, con "la realtà, dura e irriducibile, che ci fa cambiare idea", sia con idee diverse. In questo confronto cresce, si modifica, e apprende. Il dialogo, se è sereno, può arrivare a mostrare chi ha ragione e chi ha torto. L'intera storia della scienza, antica e moderna, è una lunga dimostrazione dell'efficacia della ragione: i dibattiti sono feroci, ma prima o poi si arriva a comprendere chi ha ragione e chi ha torto. La Terra è rotonda, non è piatta.

Ragione e torto dal punto di vista di chi? Dal punto di vista from nowhere? No, dal punto di vista degli stessi dialoganti. Il confronto con opinioni diverse e con i fatti esterni conforta una posizione e ne indebolisce un'altra, per quanto la «realtà dei fatti» sia filtrata dalle interpretazioni. Per quanto si voglia interpretare la Terra come piatta, arriva comunque il giorno in cui fare i conti con la nave di Ferdinando Magellano, partita verso occidente e tornata da oriente. Impariamo qualcosa sulla realtà.

L'Italia, ha una difficoltà particolare ad accettare l'idea che si possa dialogare serenamente, cambiare idea ascoltando altri, e arrivare a trovare insieme una convinzione più fondata o una soluzione migliore. Manchiamo di una tradizione di democrazia, dove questo modo di mettersi a confronto abbia avuto tempo di affinarsi. Siamo abituati a lasciar decidere dominatori stranieri, principi, vescovi, o capi carismatici, invece che cercare soluzioni ragionevoli discutendo. Ci facciamo forti di alleanze e reti di amici, piuttosto che di argomenti convincenti. Siamo l'unico paese del mondo in cui nei dibattiti televisivi si toglie la parola all'altro; in ogni altro paese, chi interrompe è giudicato poco credibile dal pubblico: vuol dire che non ha buoni argomenti. Condividiamo con l'Iran il dubbio primato di essere i paesi che si fanno più influenzare da una potente casta sacerdotale. Io ho simpatia per il ribellismo irriducibile di Gianni Vattimo e la sua voglia di cambiamento. Ma dalla democrazia di Atene alla rivoluzione francese, un'arma di cui l'umanità dispone per difendersi dalla concentrazione del potere, come dalla dittatura mediatica, è la ragione.

Credo che l'equivoco di fondo sia confondere conoscenza e certezza. L'umanità vorrebbe un'àncora alla quale aggrappare certezze. Per il pensiero antico poteva essere la fiducia in negli dèi, un Sacro Testo, gli Ayatollah, o il Santo Padre. All'inizio del mondo moderno i limiti della Tradizione diventano palesi e la certezza è cercata nell'esperienza o nella ragione astratta. Nel XIX secolo sembra che la Scienza possa fornire risposte certe, prima di scoprire che perfino le efficacissime teorie di Newton sono poi messe in dubbio da Einstein. Abbiamo imparato che non esistono garanzie su cui fondare certezze. Ma questo non toglie che possiamo riconoscere le soluzioni più ragionevoli e il sapere più credibile. Possiamo ragionevolmente conoscere la realtà indipendente da noi. L'irriducibilità dell'esperienza e l'accordo a cui arriviamo sono le nostre garanzie, imperfette ma sufficienti, che stiamo parlando di una realtà indipendente da noi. Tra chi predica che la Verità è Unica, Assoluta (e lui ne è depositario), e chi sostiene che non c'è criterio generale per scegliere fra le opinioni, esiste una terza strada: quella della discussione e della ragione.

La Cina di oggi sta lentamente avviandosi a tornare quella che è stata per la maggior parte dei cinquanta secoli di civiltà umana: la più grande potenza del pianeta. Non sappiamo se ci riuscirà, né che idee porterà. Ma certo tra queste non ci sarà l'idea che il sole sia a 10.000 "li" e la Terra sia piatta. Perché? Semplicemente perché nonostante le differenze iniziali, grazie al dialogo e al confronto sereno fra interpretazioni diverse, abbiamo trovato ottime ragioni per credere che la Terra sia "realmente" rotonda.

lunedì 26 settembre 2011

Conference on "Hermeneutic Communism", 19th October 2011, NYC

Conference on "Hermeneutic Communism", 19th October 2011, Stony Brook University (NYC)

venerdì 23 settembre 2011

Pensiero debole e new realism, la terza via di Salvatore Veca


Né deboli né positivisti
Left-Avvenimenti, 22 settembre 2011
di Simona Maggiorelli

Non si può dire addio alla verità. Ma nemmeno rinunciare all’interpretazione. Nella querelle fra New Realism e Postmoderno che ha animato l’estate interviene il filosofo Salvatore Veca indicando una terza strada possibile.

Salvatore Veca
“Non si può dire addio alla verità. Non si può abdicare all’impegno nella ricerca della verità in filosofia. Pur sapendo che questa ricerca non ha sempre un happy end. Si procede per prove e errori. Esattamente come nella scienza». Da sempre critico verso il cosiddetto Postmoderno il filosofo Salvatore Veca interviene così, con una forte presa di posizione a favore dell’«irriducibilità dei fatti» e del valore irrinunciabile della conoscenza nella querelle fra Pensiero debole e Nuovo realismo che, dopo aver animato per settimane i giornali, nel fine settimana è andato  in piazza al Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove Maurizio Ferraris ha tenuto  il 17 settembre una lectio magistralis sul New Realism (vedi left n.35), ma anche nel Castello dei conti Guidi a Poppi (AR) dove, nell’ambito di una tre giorni di seminari, domenica 18 settembre Veca ha tenuto una conferenza su un tema cruciale come la giustizia. Che qualsiasi addio alla verità renderebbe impraticabile.

Professor Veca, nel libro L’idea di incompletezza di recente uscito per Feltrinelli lei dedica ampio spazio al tema dell’interpretazione. Come è noto i pensatori deboli eleggono a slogan la frase di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Qual è la sua posizione?
Dagli anni Settanta, Vattimo in Italia, Lyotard in Francia e Rorty negli Usa, a partire da quel motto di Nietzsche, hanno detto che non possiamo ancorare i nostri discorsi, privati e pubblici, alla ricerca scientifica. Sostenendo che il pensiero non può mai trovare un fondamento saldo e roccioso ma solo un vortice di possibilità. Il contesto era quello del collasso delle ideologie e della crisi delle grandi narrazioni degli ultimi vent’anni del Novecento in Occidente. E loro pensavano che abbandonare l’idea di una oggettività dei fatti avesse un effetto emancipatorio. Ma di fronte a un acquazzone, dire che piove è un’affermazione vera; è un fatto inemendabile come direbbe il mio amico Ferraris. Nel libro che lei ricorda cerco di connettere la posizione di Nietzsche alla tesi scettica: come fai a sapere che è così? Come fai a dimostrare la veridicità delle tue asserzioni? La mia idea è di prendere sul serio le ragioni degli ermeneutici, degli interpretazionisti, ma con una obiezione. D’accordo dire che qualsiasi fatto può essere interpretato. Ma non tutti i fatti congiuntamente possono essere sottoposti a interpretazione. Qualcosa deve star fermo perché altro si possa muovere. Qualcosa deve essere tenuto fuori dal dubbio perché si possa dubitare di qualcosa. Qualunque credenza può essere messa in discussione, è una vecchia idea illuministica. Però non posso criticare tutto allo stesso tempo. Dunque, diversamente dai “debolisti” io penso che una verità sia tale fino a prova contraria, Questo non elide lo spazio d’interpretazione. Un esempio: pensiamo al 14 luglio del 1789, che chiamiamo presa della Bastiglia. In realtà solo il 2 agosto si arrivò a all’interpretazione chiara che si era trattato di un gesto per la libertà contro il dispotismo. Ogni volta che noi ci rivolgiamo alla reinterpretazione del passato non facciamo altro che rendere insaturi i fatti, riapriamo il gioco delle interpretazioni.

Estremizzando il pensiero di Nietzsche si arriva al nichilismo. D’altro canto il New Realism rischia il neopositivismo, L’essere umano non è fatto solo di razionalità. Cosa ne pensa?
Senza dubbio. Sono più che d’accordo. Tanto  che negli anni ho cercato di riflettere su una terza strada diversa dalle due menzionate. Faccio un esempio concreto. Non possiamo trascurare che mentre per noi è possibile studiare e classificare le proteine, quando cerchiamo di capire qualcosa di più delle rivolte arabe, abbiamo a che fare con strani tipi di oggetti che tendono a autodefinirsi. Lo stesso vale per i riots a Londra. In questo caso cosa vuol dire interpretare? Possiamo attribuire volontà collettive? In Medioriente prevalgono i jihaidisti? O i giovani twitters?. Non nego i fatti, ma resta aperto l’onere intellettuale dell’interpretazione. E se si irrigidisce, se si ipostatizza la si può sempre fluidificare. Ecco il punto.

In una conferenza al Festival della mente ha parlato di immaginazione filosofica. Un concetto quasi ossimorico vista la nascita del Logos come pensiero razionale…
L’immaginazione, per me, è un cardine. Non so neanche pensare che si possa fare ricerca filosofica senza che il primo passo non coincida con la capacità di “vedere” le cose, di immaginare un mondo, una questione, un problema. Il nostro lavoro è fatto da una continua tensione fra la ricerca di nessi, connessioni, fra idee e quella che io chiamo coltivazione di memorie: cioè lasciare che riemerga l’eco della tradizione, così pasticciata e meticcia e veramente creola quale è quella alle nostre spalle. Poi certo esistono metodi con cui si cerca di “acchiappare” ciò che si è intravisto. Mi sembra di vedere in una certa area qualcosa che mi attrae e cerco di andarci. Naturalmente per andarci servono dei metodi che siano giustificabili e non dipendenti dalle mie idiosincrasie. Per dirlo in una battuta, la visione filosofica è cieca se non c’è l’analisi, ma l’analisi è vuota se non viene messa in moto dall’immaginazione filosofica.

Un altro filone della sua ricerca riguarda l’eros, criticando la trattazione platonica, ma anche quella cristiana.
Cartesio
Ho ripreso questo tema di ricerca per il festival di Sarzana, ma il lavoro più completo che gli ho dedicato è in un libro di qualche anno fa, L’offerta filosofica. Mi interessava provare a mettere alla prova il motore della ricerca, provare a vedere sotto il profilo filosofico la passione, come accade che ci innamoriamo di qualcuno. Intanto continuo un corpo a corpo va con il Discorso sul metodo di Cartesio, con quel suo tentativo di dire: metto sotto pressione tutte le credenze e arriverò a una credenza che non posso mettere in questione. Cartesio lo risolve con il problema di Dio. Ma io dico che anche quella credenza lì è questionabile. Infine anche nell’intervento che ho preparato per Poppi continuo su un filone a cui mi dedico da trent’anni: il problema della giustizia sociale. Ce la facciamo a estendere concetti di giustizia a tutta l’umanità presente sul globo? Qui uso il pensiero politico di Rawls come punto di partenza.

Lei ha affrontato il tema della giustizia ora anche in forma di epos moderno, molto intensa in Sarabanda?
Nasce, in realtà, come reading per il teatro sociale fondato da Teresa Pomodoro a Milano… Sui miei libri filosofici posso rispondere lucidamente, ma riguardo a questo esordio mi sento un po’ come ragazzino. Lì c’è il precipitato dei miei ricordi, di ciò che ho provato di fronte all’ingiustizia. Una cosa però la posso dire: sono molto legato al fatto che il primo atto cominci con voce di donna.

giovedì 22 settembre 2011

Le insidie del "new realism"

Le insidie nascoste nel "New Realism"
Il Manifesto, 22 settembre 2011
di Guido Traversa


IDEOLOGIA ITALIANA Nel 2009 esce per Meltemi l'ultimo libro di Gianni Vattimo, Addio alla verità. Nel numero dello scorso luglio «Micromega» pubblica un'intervista a Vattimo nella quale il filosofo italiano rinnova il suo «addio»; Maurizio Ferraris difende la verità e il realismo, temendo che il testo del suo «una volta» maestro possa cadere nelle mani di Niccolò Ghedini e rendere possibile una epistemologia ad personam; e Flores d'Arcais ci richiama politicamente a non rinunciare «alle modeste verità di fatto (v minuscola)» per «smascherare chi si appella abusivamente alla Verità».
L'8 Agosto 2011 su «la Repubblica» Ferraris pubblica un articolo che apre con un «atto» preso dalle scene di metà Ottocento: «uno spettro si aggira per l'Europa». È lo spettro di ciò che propone «di chiamare 'New Realism'» e che darà tema e titolo ad un convegno che si terrà a Bonn nel 2012. La stessa democrazia verrà salvata dalle tre parole chiave del «New Realism»: Ontologia, Critica e Illuminismo.
Il 19 Agosto la questione, non solo lo "spettro" evocato undici giorni prima, prosegue con la discussione (prevedibile?) tra Vattimo e Ferraris; l'articolo ha scenograficamente come sfondo una enorme quercia che, un po' come un albero di Natale, ha appesi tanti riquadri delle facce dei filosofi direttamente o indirettamente chiamati in causa con nome e cognome, titoli dei libri principali, tutti divisi tra amici e nemici, fondatori, antagonisti e precursori del postmoderno. E l'intera tematica non si sviluppa solo sul piano teoretico ma anche e in molti punti su quello della maggiore o minore compatibilità dell'ermeneutica, che abbandonerebbe verità e fatti, con il realismo «new» che salverebbe entrambi, con l'etica e la politica della democrazia.
Certo chi ha preso parte in prima persona al dibattito filosofico e politico degli anni Ottanta e Movanta del secolo scorso (il riferimento è all'iniziativa editoriale I Libri di Montag apparsi tra il 1997 e il 2005 prima con Fahrenheit 451 e poi con Il Manifesto Libri) sa di quale ermeneutica si sta parlando; si tratta di quella strana ma coerente in sé linea che parte da due scuole inizialmente incompossibili: diciamo per comodità il Circolo di Vienna, con i suoi «fatti» e non «cose», con il suo criterio di significato come verificazione, e l'ermeneutica heideggeriana ancora legata negli anni Venti all'Essere. Queste due posizioni già negli anni '50 risultano profondamente unite nel ruolo primario dato al linguaggio (il secondo Wittgenstein e Quine da una parte, Gadamer dall'altra), tanto che Rihard Rorty e Jacques Derridda potevano sostenere tesi tra loro molto simili anche se con costruzioni linguistiche diverse: i «continentali» e gli «analitici» erano con lingue diverse entrambi relativisti.
Una medaglia bifronte
Meno certo è sapere a quale realismo si richiama il «New Realism». Già dalla fine degli anni Novanta un fenomeno di «pentitismo» attraversava le fila della «svolta linguistica» comune all'olismo, al decostruzionismo, all'ermeneutica; quindi l'esigenza di realismo non sembra poi tanto nuova. Pentitismo che si veniva maturando ed esprimendo non in un realismo in quanto tale - forse solo Umberto Eco in Kant e l'ornitorinco parlava dello zoccolo duro dell'essere (peraltro proprio lui disse, in una delle sue pochissime apparizioni in televisione, che era necessario bacchettare le mani dei suoi allievi eccessivi che riducevano tutto alle infinite interpretazioni, «bacchettatura» già iniziata con i Limiti dell'interpretazione) - ma in quel realismo di tipo riduzionista delle cognitive sciences e della philosophy of mind. Erano gli anni in cui, sempre in chiave antiermeneutica, si parlava spesso della «ontologia applicata» e dell'«etica applicata»; anche qui il realismo emergeva di contro al solo interpretare, ma era un realismo diverso da quello delle scienze cognitive o del mind-body problem: la realtà era costituita dalle «nuove realtà» costruite dal e nel sociale.
Jürgen Habermas
Reale e sempre antipostmoderno era il realismo della «comunicazione critica», dell'«agire comunicativo» (Jürgen Habermas) dove l'unità della ragione si esprimeva nella molteplicità delle sue voci. E forse l'elenco delle forme di realismo apparse sulla scena del dibattito filosofico potrebbe continuare.
Insomma, sarebbe opportuno sapere qualcosa di più sul tipo di realismo pensato nel «New Realism». Inoltre ci sarebbe da sapere se esso intende contrapporsi all'ermeneutica come suo semplice «opposto», al ché verrebbe il dubbio che si tratti delle due facce della medesima medaglia, e soprattutto (e la cosa è importante come la prima) se è ben chiara ai suoi sostenitori la causa storica della genesi dell'ermeneutica, di quella che personalmente definisco una «illusione trascendentale» da cui ci si può liberare solo dando una risposta adeguata alle giuste esigenze che la hanno fatta sorgere. L'ermeneutica è nata come ben motivata critica ad una metafisica essenzialista che cancellava la molteplicità varia dell'esistente in una essenza univoca, ma a questa esigenza si poteva e ancora oggi si può rispondere con una posizione non linguistico-relativistica. Per far ciò non basta appellarsi al realismo in quanto tale, ma bisogna dire anche a quale forma.
Un giro di vite
Realismo si dice in tanti modi e l'etica e la politica, così tante volte chiamate in causa dallo scorso luglio, non possono non farsi abili nel «dirne» le differenze e scegliere di conseguenza la via realistica da seguire.
La questione si fa interessante. Varrà la pena di andare a Bonn.
Nel frattempo, la discussione continua sulle pagine della cultura di «la Repubblica»: si tratta di un turn of screw, il titolo dell'articolo che raccoglie quattro interventi è: a che punto è il pensiero, debole, forte o esistenziale? Legrenzi, neuro psicologo, ci dice che il vento è cambiato rispetto ai tempi della psichiatria sociale, l'evoluzione e lo studio del cervello riportano l'uomo nella realtà biologica; Bojanic, allievo di Derrida, accetta il confrontarsi sulle cose senza chiedersi solo «da dove parli?»; Rovatti ricorda tutta la complessità filosofica e politica del pensiero debole, e ne difende la ancora forte capacità di porre la questione del potere; da ultimo FloresD'Arcais, proseguendo il suo dire su Micromega chiama in causa contro il debolismo Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio e Ludovico Geymonat.
La comunicazione imposta
Questi ulteriori interventi incominciano a dare una voce alla genesi dell'ermenuetica, il che potrebbe metterci nella condizione di non perderne ciò che c'è di vivo e necessario per il nostro presente, e si vede qualche tassello in più sulla fisionomia del «realismo» da proporre.
La realtà andrebbe sottratta tanto al realismo riduzionista, quanto all'ermeneutica autoreferenziale. La realtà, soprattutto quella umana, etica, sociale, politica e storica ha così tante e varie componenti che impone a chi la voglia capire l'arte del cogliere le somiglianze e le dissomiglianze. Questo pensiero analogico salva la verità e la realtà sia dall'essere dittatorialmente dissolte in ciò che qualcuno vuole che siano (il potere della comunicazione imposta), sia dall'essere ridotte in uno solo dei loro reali elementi (il potere di ridurre la complessità sociale, per esempio, alla sola biologia e/o al solo cervello)

mercoledì 21 settembre 2011

"Il mercato del lavoro nella strategia europea 2020": convegno a Torino, 28 e 29 ottobre 2011


Cari amici, un invito a comparire... ma a un convegno ideato dal sottoscritto e organizzato in collaborazione con il gruppo Alde del Parlamento europeo, dal titolo "Il mercato del lavoro nella strategia europea 2020". Nel video, in attesa di locandine e materiale ufficiale, spiego le ragioni che mi hanno indotto a convocare il seminario, e invito voi tutti a parteciparvi: a Torino, il 28 e 29 ottobre 2011. Di seguito troverete anche la mia lettera d'invito.


 Convegno “Il mercato del lavoro nella strategia europea 2020. Pensare, Riscoprire e Conoscere il Lavoro”

lunedì 19 settembre 2011

Politica italiana, domande kantiane

Dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 19 settembre 2011

Politica italiana, domande kantiane

Paradossale attualità delle tre grandi domande kantiane: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare. E urgenza di rovesciarne l’ordine, partendo magari da interventi come quelli di Bifo Berardi e di Ermanno Rea (Il Manifesto di giovedì 15 e domenica 18 settembre) e di Paolo Flores (Il Fatto quotidiano, domenica 18). Magari assumendosi la responsabilità di radicalizzarne le conclusioni. Possiamo sperare qualcosa da questo Parlamento? Flores non fa che riassumere ciò che tutti sappiamo e leggiamo continuamente da mesi nei nostri mitridatizzati giornali: questi parlamentari non sfiduceranno mai il loro capo banda, nel migliore dei casi perché temono fondatamente di non essere mai rieletti; e più spesso perché rischiano posti e prebende, e poi anche loro (come il loro signore e padrone) arresti, processi, sanzioni varie, non escluse vendette mafiose, una volta usciti dall’ombrello dell’immunità. Rivolgersi allora alla coscienza dei meno turpi tra gli esponenti della maggioranza? Ma come trovarli?

Ermanno Rea pensa (bontà sua) a Maurizio Lupi che sbandiera tutti i momenti la propria fede cattolica: la quale del resto, come si ricava dalla interpretazione che ne danno le supreme gerarchie vaticane, non osta a nessun compromesso con l’immoralità – dai costumi sessuali alle ruberie clientelari e fiscali. Persino la Gelmini e Mara Carfagna vengono nominate in questo appello accorato. Tutti costoro dovrebbero dimettersi, magari accompagnati da una buona parte dei parlamentari della inutile opposizione, creando le condizioni per la caduta del regime e lo scioglimento del Parlamento. Forse allora – ma non possiamo sperare nemmeno questo, temo – il presidente della Repubblica si deciderebbe a indire nuove elezioni.

Il più disperatamente lucido dei tre interventi citati è quello di Bifo. Quello che possiamo aspettarci, certo non sperare, è solo che la situazione peggiori continuamente nel futuro prossimo: magari con la sostituzione di Berlusconi da parte di un meno sputtanato fiduciario della finanza internazionale, che, sollecitato opportunamente dal capo dello Stato, applichi inflessibilmente la manovra e magari la rafforzi con altri giri di vite. Con la conseguenza di aumento di disoccupazione, disagio sociale intensificato, forse qualche sussulto di piazza che Maroni o chi per lui si incaricherà di reprimere – sul modello della Val di Susa e della lotta ai No Tav con i carri armati della Taurinense. Dovremo anche dare nuove prove della nostra lealtà atlantica (si veda La Stampa di domenica 18 settembre: secondo Riotta l’Atlantico si è allargato, bisogna restringerlo!), comprando altri caccia bombardieri per mandarli nelle “missioni di pace” della Nato (in Libia, 50.000 morti finora, non è ancora finita, del resto) e sbarrare l’ingresso dell’Onu ai Palestinesi, aspettando che Israele ne completi la sottomissione o lo sterminio (vera “soluzione finale” del problema).

Se non questo, che cosa? Il pudore democratico di Flores, e addirittura il pacifismo professato da Rea, escludono che si possa pensare a un esito diverso, e cioè che – pur non sapendo niente perché viviamo in regime di censura giornalistico-televisiva – si possa pensare a fare qualcosa che non siano i piagnistei di Bersani e Pd. Ma, sempre a proposito di speranza: non ci sarà la possibilità che i trecentomila fucili della feccia padana, magari al comando della Trota, comincino la guerra di secessione, obbligando la Nato a una missione di pace anche sul nostro territorio? Guerra (no: missione di pace) igiene del mondo? Non ce lo auguriamo, visti i risultati libici. Ma davvero, caro Kant, che cosa possiamo sperare?


Gianni Vattimo

Due interventi per il dibattito su pensiero debole e new realism

Altri due interventi sul dibattito pensiero debole/new realism, pubblicati entrambi da Liberazione il 18 settembre 2011.

«La "natura" femminile? Il pretesto per trasformare tutte le donne in badanti» 
di Tonino Bucci 
A colloquio con Francesca Rigotti, docente di dottrina politica e studiosa dei processi simbolici

«Ho tutte le colpe di questa terra. Sono comunista, femminista e atea». Francesca Rigotti insegna dottrina politica all'università di Lugano, è una studiosa di processi simbolici e delle metafore che si utilizzano non solo nel discorso filosofico, ma anche nel linguaggio della politica e dell'esperienza ordinaria. Le società umane - ha sostenuto nel suo intervento al Festival filosofia di Modena - ricorrono spesso ad analogie con i fenomeni naturali per descrivere processi culturali. Platone applicava la metafora del parto e della generazione all'atto della creazione intellettuale - all'interno del dialogo del "Teeteto", dedicato alla fondazione dell'episteme. «La donna nel mondo greco è considerata solo ricettacolo, incubatoio, terreno di coltura del seme maschile. E' solo agli uomini che è riservata la capacità di generare, o attraverso il corpo, riproducendosi nei figli, o attraverso l'anima, la conoscenza, la virtù». L'argomento del «così è, in quanto conforme a natura» è il più utilizzato dai fondamentalismi, da quelli religiosi alla tecnocrazia, ovunque insomma vi sia un presunto ordine naturale, eterno e immutabile, che debba dettare legge. Francesca Rigotti ha approfondito questi temi ne "Il pensiero delle cose", "La filosofia delle piccole cose" e "Partorire con il corpo e con la mente".

Judith Butler, uno dei suoi riferimenti, sostiene che il genere è una costruzione culturale. Di biologico non c'è nulla. Qual è il pericolo nel voler definire una presunta natura femminile per differenza da quella maschile?

Nel 2004 uscì una lettera di Ratzinger - a quel tempo cardinale - sulla posizione della donna nella Chiesa cattolica. Apparentemente si presentava come una riabilitazione della natura femminile, in realtà riduceva la donna alla funzione materna di cura e accudimento. Non posso più sentire questo discorso. Vedo tutte noi trasformate in badanti. Di fatto, è quello che facciamo. Se da domani, per ipotesi, tutte le donne smettessero di fare da stato sociale, di accudire i nipoti, di mantenere i figli, di lavorare per gli altri, crollerebbe l'intero sistema. Di questa ideologia - della donna come essere che si prende cura, contrapposta alla natura maschile aggressiva e guerriera - cadono talvolta prigioniere le stesse donne. Ho citato il caso di Edith Stein, ebrea, filosofa e fenomenologa, allieva brillantissima di Husserl, che la utilizzava solo per farle trascrivere i propri manoscritti. A un certo punto della sua vita Stein si convertì al cattolicesimo e finì in un convento. Fu una sorta di soluzione estrema, una scelta dettata da un complesso di inferiorità e da un desiderio di integrazione. Qualcosa del genere deve essere accaduto anche nel caso di Fouad Allam, che ha sentito il bisogno di convertirsi al cattolicesimo in mondovisione, per nascondere la propria origine. Sono paturnie di integrazione totale.

Anche il razzismo ricorre all'argomento della naturalizzazione di ciò che afferma. «Gli arabi sono aggressivi per natura», «gli omosessuali sono contronatura», «le donne sono fatte così» e via dicendo. Ma anche in altri campi ricorriamo ad analogie con i fenomeni naturali. E' solo un caso?
Quando ci mancano i vocaboli per parlare di questioni astratte ricorriamo all'analogia con fenomeni materiali. Lo sosteneva già Vico. Ricorriamo agli umani sensi e alle umane passioni per parlare delle cose che non conosciamo. Conosciamo il fenomeno generativo e lo applichiamo alla generazione delle idee.

Platone ricorre alla metafora del parto proprio nel dialogo dedicato all'episteme, alla conoscenza, al logos. Curioso, no?
Uno dei miti fondativi è quello del labirinto di Dedalo. Chi risolve il problema? Lo risolve Arianna dando il filo a Teseo. Quel filo - sostiene Giorgio Colli ne "La sapienza dei greci" - è il logos, il filo della ragione. Ma Teseo si impadronisce di questo logos che Arianna gli porge fisicamente, se ne appropria con un'operazione di astrazione. Il paradosso è che Arianna trova la soluzione, ma l'istante successivo il mito stabilisce che le donne non hanno il logos. La mitologia compie un'operazione sofisticata: utilizza la metafora della generazione femminile per descrivere l'atto della creatività intellettuale, che però viene riservata esclusivamente agli uomini

C'è un dibattito tra sostenitori dell'ermeneutica - Vattimo, per esempio - e sostenitori del ritorno al realismo, Ferraris in testa. Certo, non possiamo fare a meno dell'idea di verità, ma supporre un reale immutabile e indipendente dalla nostra attività non rischia di offrire un ancoraggio a discorsi autoritari?
Ho sentito di questi discorsi, anche qui al Festival. Quando sento dire che dovremmo tornare al realismo mi scatta un campanello d'allarme. Avverto il rischio di derive. Se non puoi avere più ideali la politica diventa pura amministrazione di una realtà sulla quale non hai più potere.

La realtà - come diceva il vecchio Marx - va pensata assieme alla sua negazione…

Se non è più possibile uno scarto rispetto alla realtà esistente è finita.


Un nuovo realismo anche per l'arte contro la banalità del profitto 
di Roberto Gramiccia 
Il dibattito sul Postmoderno e i suoi risvolti estetici

Quella di un Nuovo realismo è la prospettiva che ha aperto Maurizio Ferraris nella relazione tenuta a Carpi del Festival della Filosofia. Si tratta di un tema che ultimamente ha riempito di sè pagine di giornali e riviste specializzate. Esso è stato posto in una relazione oppositiva rispetto ai fondamenti del Postmoderno. E, in particolare, della lettura che ne offre, ormai da molti anni, il Pensiero debole di Gianni Vattimo. Da questa lettura, non priva di aspetti interessanti e propositivi, relativi in particolare ad un'attenzione che tende a evitare qualsiasi assolutismo e qualsiasi pensiero "perfettista", trae alimento, tuttavia, gran parte del repertorio di luoghi comuni che in qualche modo sostiene il "Pensiero unico".
In arte, in particolare, la liquidazione di qualsiasi prospettiva modernista, di qualsivoglia cultura del futuro e della trasformazione (le stesse dalle quali traeva origine la temperie delle avanguardie e delle neoavanguardie) ha prodotto una deriva relativistica e banalizzatrice, che ha lasciato libero il campo alle scorrerie liberiste e liberticide che hanno trasformato l'arte in merce e l'artista in un funzionario passivo del sistema dell'arte.
Il paradigma fondativo di questo sistema non è la ricerca, non è la qualità artistica, non è la creatività ma il profitto. Solamente il profitto. Un pensiero forte, quindi, che paradossalmente utilizza il "Pensiero debole" di Vattimo come una sorta di ambiguo grimaldello. La negazione, infatti, di qualsiasi prospettiva, connotata nel senso del cambiamento (e della rivoluzione), ha legittimato tutti quei processi di smaterializzazione dell'arte già ampiamente autorizzati da una lettura fondamentalista della lezione di Duchamp.
E così, ad esempio, la Transavanguardia ha letteralmente teorizzato l'impossibilità di un "nuovo radicale", lasciando agli artisti solo la possibilità prevalente, se non esclusiva, di "ruminare" i fondamentali dei vecchi "ismi" (dell'Espressionismo novecentesco in particolare). E più corpo che mai ha preso l'idea, già in sé fortissima, che l'arte possa prescindere da un legame forte fra progetto, materia, forma e spazio. Questa cosa qui mandava in bestia Alberto Burri, tanto per fare un nome (un grande nome) molto prima che si affermasse il Postmoderno. Ma quest'ultimo, imponendosi, ha reso possibile che tutte le teorie, anche quelle che decretano la fine della storia (Fukuyama), e quindi dell'arte, possano essere ritenute legittime.
E' per questi motivi che il ragionamento di Maurizio Ferraris e dei filosofi che animeranno il grande convegno che si terrà in primavera a Bonn sui temi del New Realism, e che ha avuto al Festival della Filosofia una sua autorevolissima anticipazione, riveste una particolare importanza, per la sua dimensione filosofica, evidentemente, ma anche per il suo coté estetico.
«Non esistono fatti ma solo interpretazione dei fatti» è la fin troppo citata frase di Nietzsche che è a fondamento della deriva relativistica del contemporaneo.
L'utilizzo fondamentalista dell'affermazione di Nietzsche - che non esistono dati assoluti e definitivi ma che essi si danno in quanto interpretazioni dell'uomo - ha autorizzato l'imporsi di un pensiero che, mentre conferma lo stato di cose presenti, pretende di fondarsi su una visione rispettosa di ogni punto di vista. E così il Pensiero unico, che tanto si ispira a una lettura certamente volgare del Postmoderno, è diventato il collante del blocco sociale che sostiene l'attuale sistema di potere nel mondo occidentale.
Ferraris e il Nuovo realismo mettono in discussione questo punto di vista, non certo per ritornare ad una visione prepotentemente assolutistica e/o banalmente positivistica ma, semmai, per riaffermare il primato dell'autonomia e della precedenza del mondo esterno rispetto ad ogni schema percettivo e conoscitivo.
In arte, come in filosofia, pur non sottovalutando l'enorme gamma delle interpretazioni possibili, si deve ritornare a non poter prescindere da un dato di realtà fondamentale e cioè che le cose sono fuori di noi e vivono di vita propria. I fenomeni, quelli sociali e quelli estetici, esistono indipendentemente dall'interpretazione che noi siamo in grado di darne. E sono di entità diversa e diversamente influenti sulla storia e sulle sue dinamiche.
La realtà inconfutabile dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo non può essere messa sullo tesso piano di altre "verità minori" che pure è possibile sostenere. Così come, in arte, è fondamentale la valutazione del "peso del reale". C'è un artista (Pizzi Cannella) che recentemente ha affermato che tutti i pittori sono realisti, indipendentemente dallo stile iconico, aniconico, installativo, concettuale da essi prescelto. Intendeva dire, evidentemente, che il mondo esterno pre-esiste ed influenza tutti gli artisti, a patto che essi siano tali, e cioè capaci e liberi.
Il punto è che proprio questa libertà negli ultimi decenni è stata messa in discussione e quindi, piuttosto che la libera ricerca che non può non tenere conto del reale, si è imposta la liturgia (per altro noiosa e iterativa) della stanca ripetizione di operazioni concettual-tecnologico-installative, più o meno sensazionalistiche, che riempiono gli attuali musei d'arte contemporanea.
Per questo pensiamo che il Nuovo realismo di Ferraris possa far bene alla filosofia. Possa far bene all'arte.