giovedì 29 dicembre 2011

Gli economisti di Torino contro la manovra

Crisi: cresce il "partito" degli economisti che bocciano Monti

(AGI) - Roma, 26 dic. - Si infoltisce la schiera degli economisti che bocciano la manovra del governo Monti e chiedono, per uscire dalla crisi, misure per favorire la crescita. Decine di adesioni nel mondo accademico alla lettera-appello al premier Monti promossa dal professor Gustavo Piga, dell'Università di Roma Tor Vergata, che tra le pieghe delle norme europee ha trovato un riferimento preciso per cui per l'Italia oggi in recessione, "raggiungere il bilancio in pareggio nel 2013 - che peggiora la recessione e non ci aiuta con i mercati e con gli spread - non è più necessario. Monti si appelli alla normativa per negoziare con Bruxelles e con il Consiglio Europeo una politica fiscale meno recessiva", in modo tale che al nostro paese, "a causa di una grave recessione economica", venga riconosciuta "la possibilità di superare il valore di riferimento del rapporto disavanzo pubblico-PIL in via eccezionale e temporanea, restando il rapporto vicino al valore di riferimento". Anche per il sito Sbilanciamoci, che nelle passate settimane ha proposto una 'controFinanziaria', "è un'altra manovra quella di cui ha bisogno il nostro paese: è necessario ridurre le spese militari e cancellare le grandi opere; bisogna inserire la tassazione dei patrimoni e delle rendite. Con i soldi raccolti - oltre che ridurre il debito - bisogna salvaguardare i redditi, le pensioni, i risparmi; bisogna investire nell'economia verde e nelle 'piccole opere'; è necessario mettere in campo un piano straordinario per il welfare in cui ci siano gli ammortizzatori sociali per i precari, servizi sociali, interventi per la scuola e l'università. Si tratta di uscire da questa crisi in in un modo diverso da quello con cui ci si era entrati: ecco perché serve una svolta, subito, sia nella richiesta di politiche europee diverse da quelle - restrittive e fatte di soli tagli - sia nella messa in campo di interventi a livello nazionale che costituiscano un vero e proprio piano di investimenti pubblici per un'economia che metta al centro i beni ed i consumi pubblici, la coesione sociale, il sostegno allo sviluppo locale". 
Sulle orme di un'analoga iniziativa lanciata in Francia da Susan George, Francois Chesnais, Etienne Balibar, "Rivolta il Debito" lancia un appello per un "Audit pubblico dei cittadini sul debito. Vogliamo rivedere in profondita' l'entità del debito pubblico italiano per impostare un'altra politica economica alternativa a quella avanzata dai vari governi che si sono succeduti in questi anni e improntata alla redistribuzione della ricchezza, alla valorizzazione dei beni comuni, del lavoro, del welfare, dell'ambiente contro gli interessi del profitto e della speculazione finanziaria". Tra i primi mille firmatari: Fausto Bertinotti, Salvatore Cannavò, Massimo Carlotto, Giulietto Chiesa, Giorgio Cremaschi, Loretta Napoleoni, Giovanni Russo Spena, Gianni Vattimo. In un'altra lettera aperta indirizzata al presidente del Consiglio Monti, venti docenti di economia prevalentemente dell'Università di Torino chiedono perché la ricchezza "liquida - titoli, depositi, investimenti finanziari - sfugga del tutto alla manovra. E' annullata così la pretesa di equità con cui il governo si era presentano agli italiani. In sostanza, ci sembra che ci siano molti argomenti a favore di una tassazione con un'aliquota non predatoria dei grandi patrimoni mobiliari, che non ci siano validi argomenti contrari sul piano dell'efficienza economica e che non vi siano rilevanti ostacoli di natura tecnica tali da impedirne l'adozione".

Qui un articolo (Lo Spiffero) sulla presa di posizione degli economisti torinesi.

La fine della modernità (ribadita)

Ristampa de La fine della modernità (presentazione sul sito Garzanti)

Vattimo Gianni
La fine della modernità
Garzanti Novecento
192 pagine
€ 11.00
ISBN 978881160140-1 

«Il tema di questo libro è la messa in chiaro del rapporto che lega gli esiti della riflessione di Nietzsche e di Heidegger con i discorsi sulla fine dell'epoca moderna e sulla post-modernità. Mettere esplicitamente in contatto questi due ambiti di pensiero significa, secondo le tesi qui esposte, scoprirne nuovi e più ricchi aspetti di verità.»

Il pensiero di Gianni Vattimo ha accompagnato, indagandolo nella maniera più radicale, il passaggio dalla modernità alla postmodernità. Partendo dai presupposti filosofici di questo cambiamento, ritrovati soprattutto in Nietzsche e Heidegger, ne ha anticipato le conseguenze, che investono la società, la politica, l'economia, la religione, le arti e la comunicazione, ma soprattutto il nostro rapporto con la realtà. La fine della modernità, saggio-manifesto pubblicato originariamente nel 1985, esplora per la prima volta in maniera unitaria il concetto di postmoderno, uno stile che ha abbandonato gli ideali dominanti della modernità: quello di progresso e di superamento critico; e nelle arti la poetica e la pratica dell'avanguardia. Attraverso l'esame di alcuni aspetti del pensiero contemporaneo (l'ermeneutica, il pragmatismo, le varie tendenze nichilistiche), Vattimo delinea così le caratteristiche fondamentali di una cultura postmoderna. 

Qui una recensione appena apparsa (28 dicembre 2011) a firma di Gianfranco Cordi su Tellus folio.


lunedì 26 dicembre 2011

Intervista sul realismo

«È la dittatura del mainstream mascherato da tecnica»  

Liberazione, 23 dicembre 2011. Di Tonino Bucci


Sono passati più di vent’anni da quando Gianni Vattimo, il teorico del pensiero debole, scrisse La società trasparente, un saggio, poi ripubblicato nel 2000, nel quale riservava ai mass media un ruolo tutto sommato positivo. L’idea era che i mezzi di comunicazione avrebbero decretato la fine dei pensieri “forti” e del dogmatismo – del pensiero unico, diremmo oggi – e contribuito alla proliferazione di tante immagini del mondo. «Ciò che intendo sostenere è: che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; che essi caratterizzano questa società non come una società più “trasparente”, più consapevole di sé, più “illuminata”, ma come una società più complessa, persino caotica; e infine che proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione». Ai media sarebbe dovuto spettare il compito di annullare il senso di «realtà», nel senso della credenza in un ordine immutabile e gerarchico delle cose, nel quale a ognuno compete un ruolo immodificabile – credenza alla quale tutte le metafisiche si sono appoggiate. Vale ancora questo discorso? Il legame tra mezzi di comunicazione e poteri forti non finisce per impedire la proliferazione di tante immagini del mondo e favorire, invece, il rafforzamento di un pensiero unico? Lo chiediamo allo stesso Gianni Vattimo.

Viviamo nella società della comunicazione generalizzata. In teoria i mass media dovrebbero garantire una situazione antidogmatica e concorrere a formare non una, ma tante immagini del mondo. Ma che ne è di questa funzione se oggi a fare informazione rimangono solo i potentati economici?
Sono persino più pessimista. Vedo un futuro di integrazione e di controllo esteso a tutta la società. Il controllo si estende a tutta l’informazione. I giornali che circolano sono quelli del mainstream e il mainstream ricalca il punto di vista dominante del capitale. E’ giusto difendere gli spazi democratici che ci sono e battersi fino all’ultimo per il pluralismo dell’informazione. Non è che finché non c’è la rivoluzione si deve rinunciare a fare qualsiasi cosa. Anche se riusciamo a difendere lo statuto dei lavoratori sarebbe già qualcosa vista l’aria che tira. Oggi provano a revocare tutte le conquiste ottenute in passato. Sono terrorizzato e pessimista. Non vedo alternative se non impegnarsi in un microconflitto continuo. Per quel che riguarda l’informazione, si può provare a usare internet. Credo che sono più letto sul mio blog che non quando scrivevo sulla Stampa. Da tempo non scrivo più sui giornali, potrei solo tentare di tenere una rubrica dal titolo “il coglione sinistro”, ma nessuno me la fa fare.

Mai mettere limiti alla provvidenza. Se Liberazione dovesse farcela, perché no?
D’accordo.

Nella scorsa estate c’è stato un dibattito sulla crisi del pensiero debole. C’è chi, Maurizio Ferraris in prima fila, sostiene il ritorno ai fatti e al realismo filosofico. Ma si commette un errore di ingenuità nel presupporre fatti neutri in una società che vive immersa nel simulacro della comunicazione?
Dirò di più, io non posso rivendicare una verità esterna contro questa informazione. Io rivendico un programma di classe. Io mi fido solo delle informazioni che vengono da una parte, da una certa zona. Non ho mai creduto nell’informazione oggettiva, figuriamoci se ci credo adesso. Il realismo, oggi, è il realismo delle banche, delle multinazionali, il realismo di Monti. Anche dal punto di vista filosofico tutti questi realismi sono figli di buona donna.

John R. Searle
John R. Searle Anche l’informazione risente di questa tecnocrazia installata al governo della società, che pretende di imporre il proprio punto di vista come unico, oggettivo, neutrale e incontrovertibile. E’ la dittatura della tecnica, non crede?
Uno dei riferimenti di questi realisti italiani è John Searle, un filosofo americano premiato, non a caso, da Bush con la medaglia del presidente. Una cosa al di là del bene e del male. Non se ne parla nemmeno. L’unico realismo vero, a mio parere, è rendersi conto dei giochi di stanno alla base dell’informazione e dei rapporti di proprietà. Il guaio del pensiero del realismo è che non puoi neppure fare proposte alternativa. E’ come la manovra di Monti. Se vuoi proporre qualche miglioramento devi essere d’accordo, altrimenti non ti ascoltano neanche. Fai parte di una minoranza poco raccomandabile, sei relegato in un angolo. Io faccio il deputato europeo ma questa è la mia impressione. Cerco di limitare i danni. Punto. Purtroppo voi di Liberazione cadete male.
Non starà dicendo che dobbiamo rassegnarci al pensiero unico? La maggior parte dei giornali ricalca lo stile cortese ma in fondo in fondo autoritario e gerarchico dei tecnocrati. Zitti, che ora ve la spieghiamo noi…
Perfettamente d’accordo. La penso anch’io così. E che siamo in due è già qualcosa. Sottoscrivo qualunque cosa che vada contro questa struttura.

giovedì 22 dicembre 2011

Rovatti e "aut aut"

Rovatti: "Sulle pagine di aut aut combattiamo dogmi e ideologie" 
La Repubblica, 22 dicembre 2011
di Antonio Gnoli

E’ una delle riviste più belle in circolazione. A dire il vero lo è da sessant'anni. Cioè da quando Enzo Paci la fondò nel 1951. Sobria, internazionale, al passo con l'evoluzione dei tempi, aut aut è l'espressione di una filosofia militante attenta alle questioni del soggetto (vedremo in che senso) e dei rapporti con l'altro. Un'antologia di suoi scritti, curata da Pier Aldo Rovatti che ne è il direttore dal 1976, è uscita ora con il titolo Il coraggio della filosofia (il Saggiatore, pagg. 533, euro 25).
Rovatti, perché fu scelto aut aut come titolo?
«La testata alludeva a una famosa opera di Kierkegaard, ma il suo significato indicava l
'esigenza culturale di una netta presa di posizione. Siamo di fronte a un bivio – diceva Enzo Paci nel primo editoriale – o la strada della barbarie o quella della civiltà. Barbarie per lui era il pensiero dogmatico e tutte le idee di tipo assolutistico del passato e del presente. Formulò un no deciso alle forme di violenza che si riproducono attraverso i pregiudizi. Era il 1951. Sebbene la guerra e il fascismo fossero alle spalle, la cultura continuava ad essere un deserto. Un giovane professore universitario, che aveva coniugato Platone con l'esistenzialismo, e di lì a poco avrebbe scoperto la fenomenologia, ideò e fece nascere aut aut».
Lei è stato allievo di Paci. Che persona è stata?
«Paci ha scritto degli ottimi libri. Era un uomo formidabile per cultura, spirito critico e originalità di idee. Le sue lezioni alla Statale di Milano erano per tutti un
'esperienza di vita. Aveva un grande fascino. Io lo subii al punto che lasciai il corso di lettere e mi iscrissi a filosofia. Ricordo che un sabato del 1961 feci con Salvatore Veca un'esercitazione in aula su “Fenomenologia e teatro”. Il testo piacque a Paci che ci chiese se volevamo pubblicarlo sulla rivista».
Non ha l
'impressione che, al di là dei meriti, della scuola fenomenologica – del tentativo di Paci di coniugare Marx con Husserl – resti ben poco?
«Marx con Husserl significava rivitalizzare il materialismo storico, salvando il marxismo critico dalla barbarie. La domanda sul soggetto che Paci allora sollevava è rimasta aperta in tutto il percorso successivo di aut aut fino a oggi».
Dopo gli anni della fenomenologia giunse il Sessantotto e aut aut è stato un buon termometro del dibattito allora in corso. Non ritiene però che il ruolo della rivista poteva essere più critico verso il movimento?
«La rivista aveva contribuito a preparare il ´68 ma non si identificò mai con il movimento degli studenti, anzi ne criticò i dogmatismi suggerendo un orizzonte filosofico molto più ampio».
Due figure di quel “decennio rosso” furono Raniero Panzieri e Franco Fortini. Il confronto con loro vi ha svincolato dal condizionamento del Pci. Ma restava il rischio di essere riassorbiti in un
'idea di “soggettività rivoluzionaria” che si è mostrata velleitaria e impraticabile.
«Il decennio al quale allude è stato forse il momento più dinamico della rivista: la questione dei bisogni ne rappresentò il filo rosso, il collettore e insieme la provocazione filosofica. Le idee di alcuni allievi di Lukács (Agnes Heller in primo luogo) e le loro critiche al “socialismo realizzato” costituirono un elemento importante di questo filo. Non a caso attorno alla rivista si aggregarono intellettuali di spicco, talora assai dissimili, da Cacciari a Fortini. Eravamo una palestra di posizioni anche conflittuali. E non mi pare che in quegli anni caldi la rivista abbia mai rinunciato alla sua ispirazione critica».
Gli anni Ottanta hanno significato un rapporto privilegiato con Foucault. Lo stesso che, negli anni Novanta, si mostrerà con Derrida. Non c
'è stato un eccesso di francesizzazione della rivista?
«Troppa Francia? Non so. Tra l
'altro c'è da aggiungere l'interesse per Lacan che continua tuttora. Prima sembrava tutto girare attorno alla fenomenologia, che parlava tedesco, la stessa lingua di Heidegger, al quale abbiamo dedicato successivamente moltissima attenzione. Ma non credo che la geofilosofia sia un sintomo significativo. Foucault entra nelle pagine di aut aut alla fine degli anni Settanta quando il problema centrale diventa per noi quello del potere e della natura dei dispositivi in cui viviamo».
Insieme a Vattimo lei è stato fautore in Italia di un “pensiero debole”. Ritiene che questo modo di interpretare il mondo sia ancora valido? O non crede che quell´esperienza si sia consumata dopo il nuovo richiamo alla realtà e ai fatti che la determinano?
«Qui vorrei essere molto netto: il pensiero debole era inattuale nel 1983, quando uscì allo scoperto, e resta inattuale oggi, quando si vorrebbe celebrarne il funerale. Il pensiero debole non è morto semplicemente perché non si è mai permesso che vivesse davvero. Quanto ad aut aut, l'indebolimento delle pretese assolutistiche della filosofia e la critica agli usi “violenti” della verità si intonavano perfettamente con i motivi per cui la rivista era nata, cioè la denuncia di ogni barbarie del pensiero, insomma di tutte le ideologie. E si accordava altrettanto bene con la microfisica del potere e la critica al “Soggetto filosofico” che attraversano l'intero pensiero di Foucault».
I temi dell'alterità e dell'ospitalità sono le coordinate dell'ultima fase della rivista. Non c'è il rischio di un eccessivo buonismo filosofico?
«Non direi proprio che aut aut possa essere accusata di buonismo filosofico. Al contrario, è una rivista che tende a produrre fastidi e lanciare provocazioni. Alterità ha per noi significato apertura ad altri mondi culturali, ma soprattutto bisogno di stanare e descrivere le insidiose e diffuse retoriche dell'alterità che vengono spacciate per supplementi d'anima. Quanto all´ospitalità non ha niente di dolce, non è un cibo per anime belle. Come l'abbiamo intesa noi, sulla scorta di Derrida, vuol dire essere stranieri, appunto ospiti in casa propria».
Chi vi critica sostiene che la rivista sia eccessivamente filosofica. Troppo elitaria.
«È un'obiezione che condivido e che implica anche un aspetto di scrittura. Le molte proposte spontanee che arrivano in redazione sono spesso scritte in filosofese, che la dice lunga sull'idea astratta di filosofia che circola e su come l'università formi studiosi magari bravi ma spesso incapaci di comunicare».
Siamo usciti, forse, da un regime politico ma non da una crisi che ha tratti epocali. Come si posiziona aut aut di fronte alle nuove incertezze, paure e precarietà che stiamo vivendo?
«Credo che l'Italia sia ancora immersa nella cultura-spettacolo e nei suoi tratti, diciamo pure, populistici. Sottovalutare questo aspetto della barbarie sarebbe un errore. Quanto alla precarietà sociale sarebbe sbagliato attribuire alla filosofia, concreta o no che sia, il compito di prefigurare soluzioni teoriche ed etiche. Non è affar suo. La filosofia non deve venir meno al suo ruolo di descrizione e di critica. Il suo compito è individuare linee di resistenza continuando nel contempo lo smascheramento delle retoriche vecchie e nuove, visibili o striscianti. Chiamerei tutto ciò lavoro di “etica minima”».
Cosa significa?
«Un lavoro tutt'altro che di superficie, visto che mette in gioco la domanda più cruciale: che ne è oggi, nella società neoliberale realizzata, della soggettività? Assistiamo a una sorta di falsa pienezza del soggetto che illusoriamente pensa di essere un individuo libero, autonomo e padrone di sé. Quando in realtà tutto va nella direzione opposta. Il soggetto egoistico non è più una storia narrabile. Meglio ripartire dalla sua finitezza e precarietà».

Inattualità del pensiero debole, la risposta di Rovatti a Ferraris

Riporto qui fedelmente la pagina dell'editore Forum dedicata a Inattualità del pensiero debole, il nuovo libro di Pier Aldo Rovatti.

E’ da pochi giorni in libreria, per il momento solo a Udine, “Inattualità del pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti, nuovo titolo della collana vicino/lontano, edita da Forum. Il volume entra a caldo nella recente polemica nei confronti del pensiero debole – polemica sollevata lo scorso agosto sulle pagine di “Repubblica” da Maurizio Ferraris - e di fatto costituisce una replica alla sua presa di posizione. Verrà presentato domenica 11 dicembre a Roma (alle 14, nella Sala Turchese del Palazzo dei Congressi dell’EUR) in occasione della Fiera della piccola e media editoria. Introdotti da Norma Zamparo, direttore editoriale di Forum, ne discuteranno l’autore, Pier Aldo Rovatti, docente di Filosofia teoretica e contemporanea all’Università di Trieste, e il giornalista Marco Pacini, direttore della collana, nonché ideatore del progetto vicino/lontano. Nel volume Pier Aldo Rovatti, dialogando con lo studioso steineriano triestino Alessandro Di Grazia, risponde alle obiezioni di Maurizio Ferraris, di Umberto Eco e di altri esponenti del “nuovo realismo”, fautori di una “piccola crociata” verso un’intera stagione culturale. Il volume si apre con un necessario preambolo, per fornire al lettore le coordinate per orientarsi nel contesto specifico della polemica. Vengono ripubblicati due articoli, comparsi questa estate su “Repubblica” e “il Piccolo” a firma di Rovatti – con Gianni Vattimo padre del pensiero debole – che costituiscono una prima replica a Ferraris e, al contempo, un’introduzione ai temi portanti della filosofia del pensiero debole. Dopo trent’anni, Rovatti conferma la particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault, rivendicando il valore che conserva ancora oggi il suo pensiero come bussola di orientamento. In una cultura spettacolarizzata e al tempo stesso accademizzata, in contrapposizione alla visione concreta e fattuale della verità sostenuta dai nuovi realisti, Rovatti sostiene la necessità di una critica radicale al concetto di ‘verità’, al fine di rimettere al centro del discorso i temi del potere e del soggetto. Attraverso una visione della storia e dell’attualità caratterizzata dalla pietas e dall’assenza di dogmi ontologici, lo sviluppo del ‘pensiero debole’ diventa lo strumento critico che può consentire alla società contemporanea di risollevarsi culturalmente e tentare di affrontare la ricerca della verità “senza menare colpi d’ascia a vuoto”. Tuttavia è proprio la situazione sociale contemporanea, i fallimenti culturali e valoriali che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni e i cui effetti influenzeranno la nostra quotidianità per molto tempo, a portare l’autore alla conclusione che, oggi, il ‘pensiero debole’ è inattuale. Il ‘pensiero debole’ è uno strumento critico che non siamo in grado di utilizzare, ma potremmo esserlo in futuro. Con le parole dell’autore “Il pensiero debole […] è un ‘pensiero positivo’ che propone la pratica di un’etica minima: una linea di resistenza contro ogni genere di nuova barbarie, sulla quale attestarsi per non cedere sul diritto di essere cittadini. Una soglia di civiltà – direi – da difendere strenuamente e rispetto a cui non indietreggiare. Da qui discendono uno stile di vita e un impegno nella società. L’indignazione diffusa, il ‘se non ora quando’ che non vale solo per il movimento delle donne, l’esigenza inderogabile di reagire alle condizioni di precarietà, l’urgenza di una scuola che funzioni, indicano con evidenza quali siano i ‘soggetti’ interessati a sottrarsi alla gelatina populistica che ormai ci avvolge. Quasi tutti. Ed è a loro che il pensiero debole si rivolge chiedendo che ciascuno si faccia carico della propria supposta ‘impotenza’, non affidandosi alle ideologie ma praticando, giorno per giorno, una valorizzazione e una socializzazione dei propri bisogni.”
Pier Aldo Rovatti insegna Filosofia teoretica e Filosofia contemporanea all’Università di Trieste. Ha studiato fenomenologia a Milano con Enzo Paci iniziando fin dagli anni Sessanta a collaborare con la rivista di filosofia e cultura «aut aut», di cui è direttore dal 1976. Collabora con i quotidiani “Il Piccolo” e “la Repubblica”. Coordina il Laboratorio di filosofia contemporanea e l’Osservatorio sulle pratiche filosofiche a Trieste. È membro del comitato scientifico di vicino/lontano. Tra le sue ultime pubblicazioni: Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale (2007); Etica minima. Scritti quasi corsari sull’anomalia italiana (2010); Noi i barbari. La sottocultura dominante (2011). Nel 2010 è uscito il primo volume a lui interamente dedicato (René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti, Milano: Mimesis, 2010) che contiene anche la prima storia dettagliata della ricezione del pensiero debole.
La collana ‘vicino lontano’ è edita da Forum ed è diretta da Marco Pacini con la consulenza scientifica di Stefano Allievi, Giovanni Leghissa, Giangiorgio Pasqualotto, Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto. Si propone di forzare il linguaggio e i confini della comunicazione accademica e specialistica per raggiungere anche il grande pubblico, con contributi rigorosi e allo stesso tempo facilmente fruibili, per rompere le barriere dei luoghi comuni, degli stereotipi e delle semplificazioni mediatiche che ostacolano una vera comprensione del reale.
In catalogo vi sono 11 titoli. Tra gli autori Carlo Galli, Slavoj Žižek, Renzo Guolo, Marco Cicala. “Inattualità del pensiero debole” sarà nelle librerie di tutta Italia a partire dalla fine di gennaio. E’ invece già in vendita a Udine presso le librerie Friuli, Moderna, Tarantola, Cluf, Friullibris

L'Idv e la riforma della governance europea: Rinaldi a nome del gruppo

UE: RINALDI (IDV), LE 10 IDEE DELL’IDV PER SALVARLA
 
(AGENPARL) - Roma, 19 dic - “Solo un’approfondita riforma del governo europeo può salvare l'Unione Europea dalla crisi attuale che da finanziaria rischia di diventare istituzionale. Ciò deve avvenire attraverso una serie di proposte per stabilizzare la zona euro e creare finalmente un'unione economica e fiscale basata su politiche di crescita e di equità sociale”. Lo ha detto Niccolò Rinaldi, eurodeputato e capodelegazione di Italia dei Valori al Parlamento Europeo, presentando i dieci punti salva-Europa a nome della delegazione Idv al Parlamento Europeo, formata, oltre che dallo stesso Rinaldi, da Sonia Alfano, Giommaria Uggias, Andrea Zanoni e Gianni Vattimo. “Elezione del Presidente della Commissione a suffragio universale sulla base di un programma e in concomitanza con l'elezione del Parlamento Europeo; creare un vero governo economico della zona euro con l'istituzione di un Ministro delle Finanze, componente della Commissione con la carica di vice-presidente (come l'Alto Rappresentante per la politica estera) al quale spetti il coordinamento dei vari commissari il cui portafoglio ha un impatto sul governo dell'eurozona; favorire l'integrazione europea, l'innovazione, la solidarietà sociale e il buongoverno aggiornando i criteri di convergenza con l'aggiunta di nuovi parametri per gli Stati membri; sia delegato alla Commissione, e non agli Stati membri, il compito di monitorare il raggiungimento dei criteri, attraverso un'approvazione preventiva delle misure nazionali e di sanzioni; il governo economico deve lanciare una nuova strategia di crescita dell'Unione, con l'emissione da parte della BEI di project bonds da destinare a investimenti in progetti europei di ricerca, infrastrutture e sostegno alla coesione sociale e con bond di stabilità per rafforzare la disciplina fiscale e aumentare la stabilità nei mercati attraverso l'aumento di liquidità, da applicare solo al 60% del debito sovrano previsto dal Trattato; creazione di un Fondo Monetario Europeo (FME), sulla base dell'attuale fondo salva-stati; creazione di un Fondo europeo di redenzione collettiva temporaneo (ECFR, come proposto dal Consiglio tedesco degli esperti economici) per l'aggregazione e la responsabilità solidale di tutti gli obblighi dei governi oltre la soglia del 60% prevista dal Trattato; istituzione a livello europeo di un prelievo di solidarietà sulle transazioni finanziarie; le risorse proprie devono rispecchiare le reali capacità dell'UE e diventare autonome dagli Stati membri; procedere a un accordo tra Unione Europea e autorità bancarie della Svizzera per applicare una tassa sui capitali depositati da parte di cittadini UE e adottare norme comuni europee per favorire il rimpatrio di capitali”.

sabato 17 dicembre 2011

Austerità: e le spese militari? Intervento di Gianni Vattimo in seduta plenaria

Intervento di Gianni Vattimo in seduta plenaria al Parlamento europeo, 14 dicembre 2011

Relazione: Krzysztof Lisek (A7-0428/2011 )
  Gianni Vattimo (ALDE ). - Signor Presidente, nonostante la grave crisi finanziaria da cui siamo avviluppati, ci sono dei settori economici che non vengono mai toccati, se non in minima parte, dai tagli imposti dalle misure di austerità adottate dagli Stati membri.
Per esempio, la manovra finanziaria cosiddetta "lacrime e sangue" del governo italiano si sta rivelando lacrime e sangue solo per i soliti noti, ovvero lavoratori e pensionati. Le spese militari, invece, non sembrano risentirne, dal momento che è stato confermato l'acquisto di 131 cacciabombardieri JSF, acquisto che impegna il governo italiano fino al 2026, per una spesa complessiva di circa 15 miliardi di euro, cioè circa la metà di questa manovra "lacrime e sangue" che stiamo subendo.
Per questo e altri motivi ho votato contro la relazione Lisek che, nonostante alcune buone idee volte a ridurre le spese, definisce preoccupanti i tagli al settore della difesa. Onorevoli colleghi, ben altri sono i tagli che dovrebbero preoccuparci maggiormente in momenti come questi!
Concludo con una domanda retorica: "Non sarà possibile che tutte queste armi acquistate oggi saremo domani costretti a utilizzare sui nostri cittadini in rivolta che ci chiederanno il conto sulle nostre scelte scellerate?".

mercoledì 14 dicembre 2011

Tav, l'intervento in seduta plenaria


Gianni Vattimo (ALDE). - Signor Presidente, desidero ancora una volta attirare l'attenzione del Parlamento sulla sempre più grave situazione della ferrovia Torino-Lione e dei lavori che si svolgono in Valle di Susa.
I fondi europei – come ho spesso segnalato – sono stati concessi al governo italiano, quale contributo europeo, in base a informazioni del tutto false. Si è detto che le comunità locali erano state debitamente consultate, e non è vero; si è detto che i lavori erano cominciati, e non è vero. L'unica cosa che è stata fatta è stato militarizzare la Valle di Susa, dichiarata di recente zona d'interesse strategico quasi come un'occupazione militare.
Molti cittadini della valle hanno presentato numerose petizioni, invitando il Parlamento europeo a smettere di fidarsi delle informazioni della Commissione esecutiva e del Consiglio perché sono complici del governo italiano in tutta questa manovra.
La popolazione locale non vuole – giustamente – questa ferrovia per una molteplicità di ragioni, esposte in importantissimi studi di esperti. Bisogna ora che il Parlamento mandi una commissione in Valle di Susa affinché prenda visione della situazione così come è.

Comunicato stampa sulla Tav

Strasburgo, 13 dicembre 2011

NO TAV,Vattimo (IdV): Parlamento europeo invii delegazione in Val di Susa

L'Eurodeputato dell'Italia dei Valori, Gianni Vattimo, intervenendo ieri sera in seduta plenaria sulla questione della ferrovia ad alta velocità Torino-Lione, un'impresa che conta anche su fondi dell'unione, ha dichiarato: "Come spesso segnalato, i fondi europei sono concessi alla Torino Lione sulla base di false informazioni fornite dal governo italiano: non è vero che siano state debitamente  consultate le comunità locali,  né che i cantieri siano aperti. Invece, si è militarizzata l'intera valle di Susa, dichiarandola zona di interesse strategico, per impedire alle popolazioni locali di far valere la loro, ormai ventennale, protesta".

"Il nuovo governo italiano, che pure ha il solo compito di gestire una situazione di assoluta emergenza nella quale non dispone certo dei mezzi finanziari necessari all'opera, ha dichiarato di volerla proseguire," ammonisce Vattimo.

"Intanto, - ricorda l'Eurodeputato - numerose petizioni con decine di migliaia di firme, hanno chiesto che questo Parlamento assuma finalmente informazioni indipendenti sul reale stato della questione; e che, superando l'evidente complicità della Commissione e del Consiglio con il governo italiano, invii una propria delegazione in Val di Susa per attestare e verificare la militarizzazione del fittizio cantiere di Chiomonte, e - conclude - per ascoltare finalmente l'opinione dei cittadini, finora esclusi da ogni consultazione, oltre che i numerosi pareri di tecnici qualificati unanimi nel dichiarare l'opera progettata come devastante e inutile".

Per maggiori informazioni:
Federica Terzi, Addetto Stampa: +32-2-283 23 24 or +32-494 18 88 31


Aggiornamenti
Sulla questione, si vedano anche i seguenti link:
  • Vattimo denuncia le false informazioni fornite dal governo italiano (Napolimetropoli.it
  • Alta velocità, Vattimo al Parlamento europeo: "Sulla Tav ascolti l'opinione dei cittadini" (Quotidianopiemontese.org
  • Tav: Vattimo, delegazione Parlamento Ue invii missione (Ansa)

Tav, fatti dell'8 dicembre: cinque domande al questore

Riporto volentieri un articolo apparso sui siti mavericknews.wordpress.com e TgMaddalena. Cinque domande per il questore di Torino, sui fatti dell'8 dicembre in Val Susa. Leggete, diffondete...

Alla conferenza stampa che annunciava le manifestazioni dell’8 Dicembre avevo invitato i giornalisti a rivolgere le immancabili domande sulla violenza al Questore, l’unico che avrebbe potuto decidere di usarla. Ebbene, l’8 Dicembre in Val Susa si è seriamente rischiato il morto, e non per la prima volta, com’è noto. Fanno specie l’indifferenza e il cinismo dei dirigenti della Questura: ‘Chi partecipa agli scontri deve mettere in conto anche la possibilità di essere coinvolto…E’ così difficile?’ dichiara il capo Digos Petronzi chiamando ‘scontri’ un’aggressione di violenza eccessiva contro una disobbedienza civile dichiaratamente inoffensiva verso la polizia e a viso scoperto. Si sa che loro chiamano scontri sparare su gente che reagisce alla violenza con una pietra (similitudine: ieri un palestinese di 28 anni è morto a Ramallah per un lacrimogeno israeliano in faccia durante un’azione di protesta pacifica contro il Muro che taglia i territori occupati) ma al di là delle consuete bugie, resta il fatto che l’8 Dicembre si è voluto premere l’acceleratore della violenza sui valsusini: lacrimogeni ad altezza d’uomo dai boschi, dal viadotto, persino dall’elicottero, gas in quantità venefiche. La nuvola di CS si vedeva fin dall’autoporto di Susa. La lobby del Tav ha da tempo dato mano libera alla Questura per ricorrere al terrore, per instaurare la paura, l’unico strumento rimasto loro per ‘persuadere’ la gente che il Tav è un’opera utile, innocua e poco costosa. Quando il Ministro Maroni paventava il morto era già chiaro a quale parte si riferiva, ora la nuova Ministra-di-ferro ne rinnova il mandato mentre Passera, un ‘tecnico’ che non vuole fare i conti, conferma la volontà di portare avanti un’opera folle in condizioni economiche disastrose. In questa situazione è sorprendente che migliaia di persone abbiano avuto una volta di più il coraggio di sfidare i divieti e mettere in gioco la propria incolumità per un’azione di disobbedienza civile che, si teme, dovrà pagare prezzi sempre più alti. Gli italiani dovranno rendere omaggio e gratitudine ai valsusini per essere i soli a difendere le tasche e gli interessi comuni contro una lobby di delinquenti che usa pezzi dello Stato per interessi totalmente privati.


Chi fa il ‘lavoro sporco’
Negli anni ’70, a Torino c’era il vicequestore Voria a comandare le forze dell’ordine in piazza. Era particolarmente odiato dalla gente perché ordinava le peggiori violenze su dimostranti e fermati e, da forsennato, si metteva in prima persona a picchiare, insultare e minacciare. Nanni Balestrini nel suo libro Vogliamo Tutto, riportando testimonianze degli scontri durissimi del 3 Luglio con gli operai Fiat, lo ricorda mentre ‘imbracciando il fucile lanciagranate intimava alla gente di ritirarsi dalle finestre’. Era nient’altro che uno psicopatico, socialmente pericoloso. Finì sfigurato dalle unghie delle donne occupanti della Falchera e con la testa rotta da un pesante portacenere per mano di uno dei mariti delle suddette. Ancora qualche prepotenza negli anni dei Circoli giovanili, poi sparì; forse in pensione, oggi probabilmente a giocarsi le sue poche carte con Satanasso. Il Voria degli anni 2000 si chiama Salvatore Sanna. Anch’egli vicequestore con delega l’ordine pubblico, anch’egli tristemente noto alla gente della Val Susa per lo stesso tipo di violenze sui dimostranti. Piccolo, tozzo, una smorfia mussoliniana permanente sul volto, era lui che nel Dicembre 2005 a Venaus comandava i celerini che irrompevano nel presidio e rompevano le teste dei presenti. Tutte le testimonianze lo descrivono in piedi sulla ruspa che sfonda la barricata aizzare i suoi gridando ‘Ammazzateli tutti!’. E’ lui che comanda sul campo le operazioni di sgombero della Maddalena il 27 Giugno di quest’anno e la difesa della stessa il 3 Luglio quando i suoi uomini si distinguono per le torture (il ragazzo ferito su cui i poliziotti si accaniscono a calci, gli urinano addosso, lo espongono al sole senza permettere che l’ambulanza lo porti via) e per le violenze gratuite (un quasi linciaggio da parte di una ventina di agenti scatenati) sui fermati. Tutto nei records filmati. E’ sempre lui che l’8 Dicembre, urlando ordini come un invasato, impugna personalmente un idrante a mano e mantiene il getto per un lungo minuto su un collega reporter del TG Maddalena che stava filmando l’avvicinamento alle reti, dando così il via all’assalto poliziesco. E’ovviamente lui che ordina di sparare i lacrimogeni indiscriminatamente ad altezza d’uomo ed è quindi responsabile del ferimento grave di due dimostranti nonchè della seguente devastazione gratuita delle infrastrutture della baita. Le testimonianze verbali e filmate riferiscono di agenti particolarmente ‘eccitati’ che senza freni insultavano i dimostranti, tiravano pietre e sparavano basso senza neanche più nascondersi, come in occasioni precedenti. Chi ha la responsabilità di tale stato di aggressività degli uomini se non chi li comanda? Chi li esaspera tenendoli permanentemente al freddo, a far niente in un recinto vuoto, per mesi?
Ora, che gente così sia utile ai Questori per ‘fare il lavoro sporco’ è innegabile come è inevitabile che i fatti, anche se documentati, vengano ufficialmente negati e le verità ribaltate col sostegno dei soliti pennivendoli. Ma è sicuro il Questore che in una situazione delicata come la Val Susa un Sanna sia la persona più adatta? Gli psicopatici sono pericolosi per entrambe le parti e portatori di guai per chi ha la responsabilità ultima. Vuole avere sulla coscienza un morto tra la popolazione? Ci pensi bene il Questore. Per lui, tanto per cominciare, e grazie all’operato del suo sottoposto, si stanno considerando denunce per furto e devastazione per quanto compiuto nella baita dagli agenti: hanno distrutto tutto quello che hanno trovato, piatti compresi; hanno urinato (è ormai un rito dei questurini) su tutto; hanno rubato (per la seconda volta) il generatore e la sirena; il tutto su proprietà privata. Abbiamo cinque domande per lui a cui vorremmo rispondesse a proposito dei fatti dell’8. Gliele riproporremo finchè ci avrà dato risposte soddisfacenti:

Chi ha dato l’ordine di sparare i lacrimogeni ad altezza d’uomo?
Chi ha permesso che gli agenti tirassero le pietre ai dimostranti (e all’operatore Rai)?
Chi ha impedito per un’ora che l’ambulanza andasse a raccogliere il ragazzo ferito?
Chi ha dato l’ordine di devastare l’interno e gli esterni della baita e di rubare attrezzature su proprietà privata?
Quale reparto o quali agenti hanno provocato con i proiettili lacrimogeni l’incendio del bosco?

giovedì 8 dicembre 2011

Santiago Zabala: "A Philosophy for the Protesters"

A Philosophy for the Protesters
The OWS movement grew out of the philosophical paradox that our financial system could not contain flaws.

Santiago Zabala, Nov. 30, 2011
AlJazeera.com

Barcelona, Spain - A few weeks ago, after participating at a conference at Stony Brook University in New York, I went to Zuccotti Park to see and support the protesters there. A few months earlier, I had done the same thing, but in Placa de Catalunya in Barcelona; in both parks, where similar dissatisfaction with our world order was being expressed, the only thing I could think of was the actuality of Karl Marx's words of 1845: "Philosophers have only interpreted the world in various ways; the point is to change it". How can these words still be valid today? Is there a philosophy for these protesters?
Regardless of all the great work that philosophers have done since Marx, this change has still not come about. The reason does not rest in philosophers' inability to interpret correctly, but rather in their desire to interpret correctly. The inability to effect change that concerned Marx cannot be attributed to interpretation but to the truth that interpretation seeks, that is, to descriptions. Descriptions demand the imposition of certain truth and the conservation of reality, the status quo. Interpretation, on the other hand, constantly makes new contributions to reality, constantly produces change. Marx's call to change the world should be read against those philosophies incapable of producing change, those that sustain the current constitution of society, politics and, most of all, the economy. These philosophies are primarily practiced in the United States under the name of "metaphysical" or "analytical" philosophy, and star representatives include, among others, Robert Nozick, Francis Fukuyama and John Searle. While Nozick and Fukuyama defend neoliberalism and its triumph over history, Searle (who was honoured by George W. Bush in 2004 with a National Humanities Medal) focuses on a defence of reason and objectivity and so acts to conserve the current condition of the world.
In the midst of our global economic crisis, which sees financial centres such as Wall Street occupied by protesters who call for change, Marx's statement points out that we are still framed within the thought system that sustains the crisis, but it also demands a change in thought, that is, a philosophy for these same protesters. This philosophy is available and is called hermeneutics, the philosophy of interpretation that runs proximally through history from Aristotle and Augustine to Paul Ricoeur and Hans-Georg Gadamer. Although Plato in the Ion presented hermeneutics as a theory of reception and practice for transmitting the messages of the gods of Olympus, it soon after acquired a broader philosophical significance, suggesting alternative vital meanings for world, thought and existence. Thus, its most important living representative, Gianni Vattimo, recently pointed out how "whoever does not succeed in becoming an autonomous interpreter, in this sense, perishes, no longer lives like a person but like a number, a statistical item in the system of production and consumption". The protesters and movements that arose in Spain last spring and have now spread throughout the world are the incarnation of these autonomous interpreters determined to overcome the economic impositions established by our governments. But what grants them this determination is not possession of a higher truth than the one espoused by the bearers of power, but rather the idea of an alternative and socially balanced organisation of wealth, that is, a different interpretation of the world.
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Live Blog Occupy di Al Jazeera
But the parallel I am trying to establish between our protesters and the philosophy of interpretation does not rest simply on their demand for change but also on the condition in which they find themselves. Both the protesters and hermeneutics exist at the margins of society, as a sort of discharge of capitalism, on the one hand, and a second-rate philosophy, on the other. This marginalised condition is a consequence not of political or theoretical inconsistence, but rather of their vital ethical demands. Like Marx, hermeneutic thought and the protesters pose a radical demand for change. Rarely do people comfortable in their lives propose a different interpretation of reality, but when they do, it becomes politically revolutionary because it opposes the objective state of affairs that conditioned his previous existence. The demands of our protesters in Barcelona, New York and Sydney vary from equal distribution of income, greater social services, to reduction of corporations influence on politics, but this does not indicate they are conflicting, confused, and anarchic but that they are all hungry for change. But why is hermeneutics the most appropriate philosophy for these protesters who seek to change real economic policies?
Joseph E. Stiglitz
If hermeneutics can become the philosophy of our protesters it is not only because it shares a discredited condition, revolutionary goals or ethical resistance, but also because it suggests that human coexistence is possible without imposed truth, that is, a single global financial system. After all, according to Joseph Stiglitz, Paul Krugman, and other distinguished economists, it is just this belief in a global economy that drove us into financial crisis in the first place. The IMF, WB and ECB are founded on a "pensee unique," that is, an ideology of perfection, rationality, and self-regulation where flaws, frictions and failures cannot even be taken into consideration. Imposing as truth the specific economic policies of these organisations is to the life embodied by our protesters, a life that shows different and differently vital cultural and economic demands. Hermeneutics, then, is one of the few philosophies that reflects the pluralism of our postmodern societies because, like truly democratic procedures, it includes and allows structural changes to take place every time citizens demand them. Ignoring these demands for change overlooks new, different, and vital interpretations and also ignores the 99 per cent of the population that is now demanding them and the change they can effect.

Santiago Zabala is ICREA Research Professor at the University of Barcelona. His books include The Hermeneutic Nature of Analytic Philosophy (2008), The Remains of Being (2009), and, most recently, Hermeneutic Communism (2011, co-authored with Gianni Vattimo), all published by Columbia University Press. His webpage is www.santiagozabala.com
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martedì 6 dicembre 2011

Randagi rumeni, un appello

Rimando qui a un bell'articolo pubblicato dall'Agenzia di stampa Geapress il 2 dicembre 2011, sui cani randagi romeni e la recente disposizione legislativa della Romania che autorizzerebbe le autorità locali a ridurre il problema con ogni mezzo, nonché sull'appello firmato dall'intero gruppo dell'Idv al Parlamento europeo, insieme ad altri deputati, per chiedere al Presidente rumeno di ritirare la legge in questione.

GEAPRESS – Un pasticciaccio brutto quello dei randagi romeni. Brutto innanzitutto per i randagi che per via della legge approvata lo scorso 22 novembre (vedi articolo GeaPress) saranno ora in balia delle decisioni dei Sindaci. Lo Stato delega la sua politica alle autorità locali che, però, senza regole generali, possono fare tutto quello che vogliono, ivi compreso (come del resto già successo proprio in Romania) le uccisioni di massa. Un brutto pasticcio anche per la scarsa veemenza con la quale le autorità europee stanno affrontando la questione. Anche qui non vi è una politica di principio, anche perché non sempre le autorità politiche dell’Europa, ovvero quelle che decidono o possono determinare regolamenti e direttive, coincidono con quelle di natura elettiva. Lo sono gli eurodeputati, ma il Consiglio e la Commissione sono forse più confacenti all’Europa delle lobby. Qualcosa però inizia a muoversi. 

lunedì 5 dicembre 2011

Su Pareyson e il convegno di Torino

Pareyson, l'uomo è una tragedia di libertà
La Stampa - TuttoLibri, 3 dicembre 2011

La riscoperta. Vent’anni fa moriva il filosofo che ha lasciato un profondo solco nell’esistenzialismo contemporaneo. Si ristampano le sue opere, e lunedì un convegno lo celebra

Gianni Vattimo
Il convegno che si tiene in questi giorni a Torino è dedicato, nel ventennale della sua morte (e mentre presso l’editore Mursia si pubblicano le sue opere complete), al pensiero estetico di Luigi Pareyson. La scelta del tema è certamente giustificata, giacché la teoria della formatività (così Pareyson aveva intitolato il suo rivoluzionario libro: Estetica. Teoria della formatività, uscìto nel 1954; oggi in edizione Bompiani, 1988) è stata senz’altro la prima ragione della sua notorietà nella filosofia italiana dell’epoca (anche se Pareyson appena ventenne aveva già prima pubblicato il fondamentale libro su L’esistenzialismo e Karl Jaspers, 1940, riedito da Marietti, 1983), e resta ancora la sua opera più conosciuta in Italia e all’estero.
Luigi Pareyson (1918-1991)
Ma forse una ragione di opportunità si aggiunge a questa, per giustificare la scelta del tema del convegno: da un lato l’estetica è anche la prima formulazione della sua filosofia, con il centrale concetto di interpretazione che era destinato a divenire un termine essenziale della filosofia continentale europea degli anni seguenti; d’altro lato, è nel nocciolo dell’estetica che i discepoli di Pareyson, che hanno poi preso strade teoriche diverse, si riconoscono come una scuola. Così, è difficile pensare che il più noto oggi (e anche ormai il più anziano) dei suoi scolari, Umberto Eco, potesse seguire il maestro negli sviluppi essenzialmente ermeneutico-religiosi del suo pensiero successivo. A Eco è affidata la relazione di apertura del convegno, dunque, non solo per una ragione «pubblicitaria», del resto legittima; ma come un modo di riprendere Pareyson, per così dire, dall’origine.
Un’origine che, a prima vista, può sembrare difficile da collegare con gli esiti «tragicisti» e esplicitamente religiosi del suo itinerario filosofico: penso soprattutto agli scritti raccolti in Ontologia della libertà, uscito postumo (Einaudi, 1995) che oggi più ancora dell’estetica, e presso filosofi della generazione più «giovane» (una delle relazioni del convegno sarà tenuta da Massimo Cacciari) mantiene vivo l’interesse intorno al maestro torinese.
La diade Eco-Cacciari segna bene i confini estremi della presenza di Pareyson nella filosofia di oggi. E il convegno torinese, che nasce come iniziativa della cattedra di Estetica oggi tenuta a Torino da Federico Vercellone, anche per i non specialisti e gli studiosi più giovani è una buona occasione per capire come la teoria della formatività possa aver dato luogo agli sviluppi ultimi del pensiero tragico. Il quale, non dimentichiamolo, è concentrato intorno alla problematica, e scandalosa, nozione del «male in Dio», una nozione inseparabile dalla ontologia della libertà.
Detto sommariamente, se al mondo c’è libertà, e cioè se la nostra esperienza di esser liberi ha un senso, anche Dio deve essere pensato come libero; ma dunque come qualcuno che «sceglie» e decide, tra un positivo e un negativo tra bene e male, qualunque cosa essi significhino; e non come l’atto puro della metafisica classica che è già sempre perfetto e compiuto: il problema della predestinazione, e della stessa creazione, su cui si sono spaccate le teste di tanti teologi sarebbe insolubile se Dio fosse caratterizzato da questa perfetta immutabilità.
E l’estetica che c’entra? Pareyson elabora la teoria della formatività analizzando l’esperienza del fare artistico: che sebbene non necessitato da niente, non è arbitrario: l’artista si corregge, rifà, cambia. Guidato da quello che Pareyson chiama «forma formante». Ma proprio perché non è arbitrio, la forma che nasce nella creazione artistica, e in qualunque evento legato all’ iniziativa umana, è manifestazione di una presenza che trascende la pura relazione tra il soggetto e l’opera.
Vattimo, Eco, Pareyson e Gadamer
È questa trascendenza, la presenza di una «legalità» non riducibile alla iniziativa cosciente del soggetto, che avvia alla riflessione sull’esperienza religiosa. L’essere che accade così nel fare umano non si lascia spiegare in termini razionali, è affare di libertà: se si vuole, qui c’è una traccia degli studi pareysoniani sul romanticismo e l’estetica kantiana del genio. Ma soprattutto, questo è un modo di render conto della irriducibilità della cultura alla pura funzionalità vitale: come le opere d’arte, anche se in misure e maniere diverse tutte le forme culturali sono creazioni non «richieste» né «spiegate» da ciò che veniva prima, dunque opere della libertà. Ciò che è libero è imprevedibile e non deducibile dal già dato. Per questo l’esperienza religiosa ha senso come esperienza mitica: delle origini può esserci solo racconto (è il senso del termine greco mythos), mai discorso razionale, logico-deduttivo.
I miti non si scelgono, si ereditano: Pareyson è stato un cristiano credente, e tuttavia è molto probabile che anche la sua fede cristiana fosse storico-mitica più che metafisicamente certa. Ma anche nella sua esperienza della religione come mito non c’è arbitrarietà, come già nell’esperienza estetica. La presenza della trascendenza (come in tanti dei suoi autori: Jaspers, Barth, Heidegger, Schelling; fino a Dostoevskij) non si lascia includere nell’orizzonte tranquillizzante della logica; ha piuttosto i tratti aperti e problematici della libertà, o se si vuole della vita.

domenica 4 dicembre 2011

Convegno su Pareson, a vent'anni dalla morte

Il convegno su Pareyson: la locandina

Info: pareyson.unito.it

Torino celebra Pareyson a vent'anni dalla scomparsa 
(Controcampus, Francesco Ienco, 5 dicembre 2011)

Corrado Ocone e la filosofia classica tedesca

Restituiteci la filosofia classica tedesca, please

Il vero rimosso della polemica tra neorealisti e postmoderni, è la dialettica che ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”.

di Corrado Ocone. Il Riformista, 3 dicembre 2011

L'intervento di Filippo La Porta su Ragioni di domenica scorsa, nonostante il suggestivo accostamento di democrazia e verità, si presta ad alcune obiezioni di fondo. Più in generale, è proprio il dibattito attuale fra neorealisti e postmodernisti che lascia profondamente insoddisfatti. A ben vedere, in entrambi gli schieramenti c’è un rimosso, un macigno che ostruisce la strada e che non può semplicemente essere scansato deviando. Il rischio è che ci si perda per davvero. Per chiarirmi io stesso e per chiarire a voi il senso di questa insoddisfazione e anche la natura del grande rimosso, propongo in questa sede un itinerario in tre tappe, che vanno a ritroso nel tempo, e una conclusione.
Prima tappa: estate 2011. Che un’epoca della storia delle idee fosse finita lo avevamo capito da un po’. Quest’estate però la conferma ci è arrivata dal mensile inglese Prospect che ha pubblicato un lungo e persuasivo articolo del critico letterario Edward Docx con un titolo che era una campana a morto: «Il postmodernismo è finito». Lo spunto era una esposizione che è tuttora in corso al Royal and Albert Museum di Londra e che permette di storicizzare un’epoca, gli ultimi trent’anni approssimativamente, in cui non solo le arti, ma anche la filosofia, i comportamenti, gli stili di vita hanno assunto un tono ben determinato.
Jean-François Lyotard

Del postmoderno anzi, a ben vedere, si può addirittura fissare una data di nascita, un momento in cui giunge a consapevolezza. È il 1979, l’anno in cui cioè il sociologo Jean Francois Lyotard pubblica con il titolo La condition postmoderne un agile rapporto sullo stato del sapere nel mondo contemporaneo che gli è stato commissionato dall’Unesco
In esso egli parla di fine delle metanarrazioni, cioè della crisi irreversibile di quelle dottrine che avevano fino allora preteso di dare un senso unitario alla realtà: l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo. Al loro posto, Lyotard vede all’opera una positiva pluralità di linguaggi e di saperi, una frammentazione e una dispersione del senso che, a suo dire, può coincidere con l’emancipazione umana, con la libertà da ogni costrizione di vita e di pensiero. È l’immagine gioiosa di Zarathustra che danza. E comunque un richiamo a quel prospettivismo che aveva portato Nietzsche a dire che «non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Come sia andata a finire, è dato sapere. Come ammette lo stesso Vattimo, che con il filosofo americano Richard Rorty e altri tentò di dare una base filosofica al nuovo “spirito dei tempo”, non fu previsto che, nel deserto delle ideologie, una sarebbe tuttavia sopravvissuta e avrebbe soppiantato ogni altra. Più pericolosa delle altre, perché si sarebbe presentata come una non ideologia. Non è un caso che il trentennio del postmoderno abbia coinciso con quello del neoliberismo, cioè con il tracimare in una mistica dell’idea di Mercato. E non è un caso che oggi anch’essa sembra finita, almeno da un punto di vista teorico: la crisi finanziaria del 2008, che ancora tutti ci avvolge, ne ha mostrato fin troppo bene i vizi e i limiti.

Seconda tappa: ottobre 2010. Fra i critici più eminenti del postmoderno in Italia si segnala Maurizio Ferraris, con le cui posizioni La Porta si mostra particolarmente simpatetico. Allievo di Vattimo, autore di una importante Storia dell’ermeneutica (1988) tradotta in più lingue, Ferraris, a partire dall’inizio degli anni Novanta, matura una svolta radicale del suo pensiero: uccide metaforicamente il proprio Padre-Maestro e va elaborando una sua autonoma prospettiva realista o neo-realista.

Richard Rorty

Un anno fa ho avuto l’onore di essere invitato a Napoli da Ferraris ad un seminario in cui ha presentato a un ristretto numero di studiosi la sua critica del postmoderno. L’ho trovato molto persuasiva. In modo inconsueto per un filosofo, Ferraris ha proiettato delle diapositive illustrative. In una c’era una foto di Rorty accompagnata da tre icastiche affermazioni, che cito a mente: 1) la verità e la realtà sono concetti violenti, dispotici, vanno eliminati; 2) bisogna essere “teorici ironici”, cioè non prendersi sul serio e non credere fino in fondo a se stessi e a quanto si dice; 3) bisogna promuovere una “rivoluzione desiderante”. Dopo aver commentato, Ferraris ha cambiato diapositiva: nella successiva le tre frasi restavano le stesse, ma al posto di Rorty compariva la foto di Berlusconi. Più chiaro di così?
Terza tappa: 2009. I problemi per me sorgono quando Ferraris illustra la pars construens del suo pensiero, quando spiega in che senso e in che modo egli vuole ristabilire l’idea di realtà e il concetto della verità. Qui il riferimento d’obbligo è al suo libro di maggior impegno fra gli ultimi pubblicati, quello con intento sistematico: Documentalità, uscito da Laterza nel 2009. In esso Ferraris ci offre un “catalogo del mondo”, che per lui è un mondo di oggetti, fatti bruti, tutti ben distinti e separati: oggetti naturali, ideali, sociali, secondo la sua classificazione. Il rapporto fra oggetti e mondo è quello fra contenuto e contenitore. Con un gusto oserei dire quasi snobistico, egli butta al mare tutto il pensiero moderno successivo a Kant, recuperando un concetto di “natura” alquanto astratto: fra i razionalisti cartesiani da una parte e i teorici della decostruzione e del postmoderno dall’altra è come se, per lui, non ci fosse proprio nulla. La sua prospettiva è quella che in linguaggio tecnico si chiama “realismo ingenuo” in quanto non tiene conto della svolta che la filosofia ha subìto con la “rivoluzione copernicana” di Kant: quella “svolta trascendentale” che ci porta ad affermare che non esiste o non ci è dato attingere una “realtà in sé” con la ragione, perché la realtà è sempre mediata nella conoscenza dai nostri schemi concettuali. In questo senso si parla di “presupposto oggettivante” come di un pre-giudizio che non regge ad una attenta riflessione.
Immediate conseguenze del modo di pensare di Ferraris sono due: la logica può essere solo quella formale delle scienze; la verità non è altro che la vecchia adaequatio rei et intellecctus, quella “corrispondenza” perfetta che in San Tommaso aveva correttamente un garante di ultima istanza nel Padreterno.
Ricapitolando: per Ferraris la realtà e la verità esistono, ma come mondo di oggetti già dato e come “esattezza” di tipo matematico del discorso. Non come storia e come articolazione razionale di un discorso su di essa. Ulteriore e non inessenziale conseguenza: il mondo dei sentimenti, delle passioni, dell’immaginazione, dell’intuizione, non può avere nessuna virtù conoscitiva.

Maurizio Ferraris

Una conclusione. Ecco allora chiarito il motivo della mia insoddisfazione. Il dibattito fra neorealisti e postmoderni tiene fuori tutta la filosofia classica tedesca. E tiene in conseguenza fuori anche la tradizione italiana che in modo sempre critico e autonomo su quelle basi si era fondata. È un problema solo teorico? Non credo. Come Ferraris ci ha mostrato con il gioco delle diapositive, ogni scelta teorica ha un correlato pratico. Il pensiero non è mai innocente.
L’autore che non è assolutamente tenuto presente o quanto meno non è preso sul serio in tutta la sua forza e vigore speculativo è Hegel, il pensatore che ci ha mostrato come la realtà e la verità esistono, ma anche come non siano delle cose pallide ed esangui, degli oggetti separati che stanno lì fuori ad aspettare che noi li incrociamo e “rispecchiamo”. Prima di tutto la realtà è un processo e non un risultato. Poi è un insieme interrelato di forze concrete, reali, storiche, in tensione dialettica tra loro. “Il vero è l’intero” e questo intero è “totalità organica”: non un semplice aggregato di oggetti, ma un insieme di elementi storici in progresso e interdipendenti. Confacente alla realtà è una logica che non si limiti a separare astrattamente gli elementi, ma sappia vederne anche le intercorrelazioni reciproche: che sia confacente nel pensiero al movimento dialettico o storico del reale. In definitiva, è la dialettica il vero rimosso di questa polemica e anche del pensiero italiano degli ultimi anni. È come se, a un certo punto, si sia voluto buttare via con l’acqua sporca dell’utopismo marxista anche il bambino del suo canone di interpretazione storica.

Benedetto Croce

Ovviamente da integrare con altri canoni, come ci ha insegnato Croce, ma comunque assolutamente da non ignorare. Anche perché la dialettica ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”, a non opporci in modo astratto a chi la pensa diversamente da noi ma a cercare di mediare e integrare le loro posizioni nelle nostre perché la verità esiste ma non è monopolio di nessuno.
Lo stesso Croce, il punto più alto della nostra tradizione filosofica e storicistica, mostrò come sia in Hegel sia in Marx ci fosse un momento in cui la dialettica si contraddiceva e si chiudeva: lo Spirito assoluto nel primo, la futura società comunista nel secondo. Ma le contraddizioni dei grandi dovrebbero essere smascherate, non dovrebbero servire per occultare le loro conquiste.
E come dimenticare che ci fu anche chi come Guido De Ruggiero, a mio avviso non a torto, individuò in Hegel, nella sua idea di conflittualità produttiva emergente dall’analisi del rapporto servo-padrone, addirittura un padre del liberalismo? E finì per dedicargli un capitolo centrale della sua Storia del liberalismo europeo, un volume che, a dimostrazione del carattere cosmopolita di quella nostra cultura, fu subito tradotto dal grande “crociano” di Oxford Collingwood per i tipi della Cambridge University Press, avendo una diffusione enorme e comparendo per molto tempo nelle bibliografie sul tema. Lo stesso marxismo italiano, pur con tutti i suoi limiti, grazie soprattutto a Gramsci, si era costruito su una solida base storicistica, in una linea di continuità di pensiero che da Machiavelli e De Sanctis giungeva a Labriola e Croce.

Siamo sicuri che tutto questo sia un passato da dimenticare? Come non vederne la solidità e il rigore di pensiero e azione? A mio modo di vedere non si può cambiare, né andare incontro al futuro, se non ci si confronta con questa nostra identità, se non si ha il coraggio di superarla anche ma comunque restando alla sua altezza.